Correva l’anno 1796 quando le campagne attorno a Verona si facevano teatro di un nuovo sanguinoso conflitto tra opposte fazioni, impegnate a contendersi quel territorio che, a partire dalla riva sinistra del fiume Mincio, si estendeva fino a comprendere tutta la piana dell’Adige per aprirsi in direzione del mare Adriatico.
Questa volta la miccia era stata innescata dal confronto fra gli eserciti della I Coalizione Antifrancese, che comprendeva la Prussia, l’Austria, la Spagna, il Regno di Sardegna, ed il Regno Unito, e quello della Francia repubblicana, che, a pochi anni dalla rivoluzione aveva intrapreso una campagna militare verso oriente aprendo un primo fronte lungo il Reno ed un secondo fronte in Italia, proprio nel cuore della pianura padana.
Quella parte dell’armata francese che, dopo aver valicato le Alpi aveva avuto facilmente ragione delle truppe sabaude ed aveva iniziato a ricacciare indietro gli austriaci sino ad oltre i confini della Repubblica di Venezia, allora dichiaratasi neutrale, era agli ordini di un giovane generale, allora ventisettenne, che rispondeva al nome di Napoleone Bonaparte.
Nato ad Ajaccio, in Corsica, nel 1769, Napoleone, dopo aver lasciato il paese d’origine, aveva condotto una rapida carriera militare vissuta all’ombra della rivoluzione. Schierato fin da subito al fianco dei rivoluzionari, tra alterne vicende, aveva visto infine premiato il successo con cui aveva partecipato alla repressione dei moti filo-monarchici di Tolone nel 1793, che gli valse la nomina a generale, e quindi la determinazione con cui era intervenuto a sedare il tentativo di rivolta restauratrice del 13 vendemmiaio nel 1795 a Parigi.
Spinto da una notevolissima ambizione personale e sorretto da un indiscutibile talento “strategico” Napoleone aveva quindi spinto l’Armata d’Italia fino a Verona, non prima di aver cinto d’assedio la fortezza di Mantova isolandola dal resto dell’esercito austriaco, ed a quel punto, nell’autunno di quello stesso anno, attendeva l’occasione più favorevole per aprirsi la strada in direzione di Venezia.
Le truppe austriache in Italia erano, in quel frangente, sottoposte al comando del generale Joseph Alvinczy Freiherr von Berberek, e, oltre alla guarnigione isolata a Mantova, erano divise in due tronconi. Una parte si trovava poco più a nord dell’imboccatura della valle dell’Adige e fronteggiava le divisioni francesi comandate dal generale Vaubois, e quell’altra si trovava tra Caldiero e San Bonifacio, località site nelle vicinanze di Verona, pronta a minacciare direttamente i sobborghi orientali della città.
Verso la metà di novembre la mossa che il comando austriaco stava preparando era quella di impegnare i francesi contemporaneamente sui due fronti, facendo valere la propria superiorità numerica, per ricongiungere le truppe e muovere alla liberazione di Mantova. Napoleone, intuita la pericolosità di quanto si stava realizzando a danno dei suoi obbiettivi, si risolse ad agire con anticipo e, contando sul fatto che il fronte “nord” riuscisse a reggere da solo ancora per qualche giorno, preparò la sortita da Verona con il grosso delle truppe a sua disposizione.
All’alba del 15 novembre ebbe inizio l’operazione che prevedeva la conquista da parte francese della sponda sinistra dell’Adige presidiata dagli austriaci, per la quale fu scelta come teatro dello scontro l’area compresa tra l’Adige stesso ed il torrente Alpone, nei pressi degli abitati di Belfiore (allora “Porcile”) e Ronco. L’obbiettivo di tale scelta era per Napoleone quello di sfruttare a proprio vantaggio le caratteristiche del terreno, poco praticabile a causa della presenza di paludi, e di rendere così temporaneamente inefficace la presunta superiorità numerica austriaca.
Dopo che i francesi ebbero superato l’Adige su di un ponte di barche allestito nei pressi di Ronco, gli scontri si accesero subito in diverse località della zona nelle quali i diversi schieramenti iniziarono via via a fronteggiarsi, ma, fin dall’inizio del confronto, apparve chiaro come fosse determinante per le sorti della battaglia la conquista da parte francese dell’abitato di Arcole e del suo ponte, presidiato dagli austriaci, che, attraversando in quel punto il torrente Alpone, fungeva da ultimo “caposaldo” a difesa della pianura vicentina.
I tentativi di conquistare il ponte da parte francese si protrassero per tre giorni durante i quali ebbe luogo una serie di scontri violentissimi, finché, nei pressi della località di Cantalovo, un intero battaglione austriaco fu sorpreso in un imboscata e pressoché sterminato a colpi di baionetta dai soldati francesi appostatisi in precedenza nelle attigue paludi.
Giunti alla sera del 17 Arcole era ormai caduta in mano francese e l’esercito austriaco stava cominciando a ritirarsi in direzione di Vicenza.
La battaglia del ponte di Arcole iniziò così, nel giro di breve tempo, allo stesso modo della battaglia di Rivoli che avrebbe avuto luogo di lì a poco, ad essere considerata uno dei momenti decisivi per le sorti della prima campagna d’Italia, e ad essere “celebrata” da parte francese nel più ampio quadro delle vittoriose gesta napoleoniche per entrare a far parte di quella che sarebbe diventata una vera e propria “epopea”.
Ma al di là delle suggestioni tanto care al forte sentimento nazionalistico francese, che ancora celebra Napoleone alla stregua di un padre della patria, quello che in effetti accadde ad Arcole ed, in generale, nel corso di quel conflitto che sconvolse il nord Italia verso la fine del 1700, è rivelatore di una realtà molto più drammatica di quanto si è soliti considerare, che dovrebbe indurre a guardare a quell’episodio e, più in generale, alla storia raccontataci abitualmente al riguardo delle imprese belliche, con occhi maggiormente “disincantati”.
La battaglia di Arcole fu infatti, innanzitutto, una carneficina.
Le perdite complessive, suddivise tra i due schieramenti contrapposti, furono superiori alla cifra di diecimila soldati nell’arco di tre sole giornate, e si possono soltanto immaginare gli esiti catastrofici in termini di ferimenti ed uccisioni che ebbero gli assalti ed i contrassalti lanciati in quei giorni dalle opposte fazioni, di fronte alle scariche di fucileria ed ai colpi dell’artiglieria caricata a “mitraglia” che si susseguivano da ambo le parti.
Ed anche l’abilità manifestata in quelle circostanze dai comandanti in campo dovette, in realtà, consistitere non tanto nella validità delle scelte strategiche, quanto prevalentemente nella capacità di lanciare i propri soldati incontro ad una morte quasi certa, nella speranza che la quantità dei caduti della parte avversa fosse alla fine superiore a quella della propria.
Lo stesso episodio della conquista del ponte, che venne poi celebrato da diversi pittori con quadri esposti nei maggiori musei del mondo, divenne la rappresentazione di un fatto di cui non si ha certezza alcuna. Quello che invece con certezza si sa non è infatti se Napoleone avesse condotto personalmente o meno le truppe francesi sul ponte di Arcole brandendo il tricolore, quanto piuttosto che, in quell’occasione, egli fu salvato a stento dai propri soldati allorché cadde in una buca col proprio cavallo, inseguito dalle truppe austriache che cercavano di catturarlo.
Ma è chiaro che in questo caso, come in molti altri, va tenuto in conto che la storia viene solitamente scritta dai vincitori. Ed i vincitori francesi intesero presentare la campagna d’Italia del 1796-97 come una serie di brillanti vittorie militari orchestrata con sagacia ed eroismo dal giovane condottiero Napoleone Bonaparte.
Ben poco venne fatto notare invece dell’effettivo esito cui portò quella campagna che culminò con la firma del Trattato di Campoformio nell’autunno del 1797 e delle conseguenze che se ne ebbero per le popolazioni che abitavano le regioni interessate dal conflitto.
Come ben poco venne detto del fatto che i rapidi spostamenti con cui Napoleone muoveva le truppe sui territori da conquistare erano agevolati dal fatto di avvenire senza la scorta di vettovagliamenti, e che quindi i rifornimenti alimentari avvenivano a spese della popolazione locale che diveniva oggetto di sistematica rapina da parte dell’esercito invasore.
E quasi nulla venne riportato a proposito del bottino complessivo che la spedizione in Italia fruttò per le casse della Prima Repubblica francese, bottino che ammontava a quaranta milioni di lire-oro, per un valore equivalente a 1033 miliardi di Euro attuali.
Tutta la regione veneta, che, fintanto che la Repubblica di Venezia aveva mantenuto la propria autonomia, poteva vantare un tenore di vita della propria popolazione fino a quattro volte superiore alla media europea, cadde nella miseria più nera dopo che Napoleone procedette alla cessione dei suoi territori all’Austria a seguito della firma del trattato di pace.
E tutto questo avvenne nonostante il fatto che anche una parte, benché minoritaria, della popolazione italiana, evidentemente sedotta dai racconti ascoltati nei salotti del “progressismo europeo”, ancora credesse che Napoleone fosse giunto in Italia per affermare e trasmettere i nuovi ideali rivoluzionari ed a smantellare quell’antica ed oppressiva organizzazione politico-sociale definita, non senza intenzione propagandistica, “ancien régime”.
Possiamo allora provare a rispondere alla domanda posta dal Manzoni nella sua celebre ode (1) chiedendoci a nostra volta se, per stabilire se la sua fu “vera gloria”, oltre ai successi di tipo militare, non vadano tenute in conto anche le altre responsabilità che Napoleone si assunse nel momento in cui si fece interprete delle mire espansionistiche di un potere apparentemente nuovo, ma in realtà in tutto simile a quello che intendeva sostituire, per quanto riguarda i metodi e gli obbiettivi di dominio che si prefiggeva.
Presentato come un liberatore, Napoleone si comportò nei fatti come un predatore sanguinario, e non ebbe scrupolo, ogni qualvolta se ne presentasse l’occasione, di rivolgere le bocche dei propri cannoni contro chicchessia, se questo gli fosse stato richiesto da chi era “sopra” di lui e se questo fosse stato utile al proprio personale interesse.
Protagonista in negativo di un cambiamento forse troppo presto “annunciato”, Napoleone ebbe un ruolo nell’opera di manipolazione degli ideali rivoluzionari, che vennero progressivamente sostituiti con la sua propria immagine di condottiero vittorioso, quale rappresentante ed interprete delle nuove aspirazioni di dominio che la Francia intendeva concretizzare a livello europeo e coloniale.
Con Napoleone e la sua breve ma intensa parabola, conclusasi con l’esilio e la morte avvenuta a Sant’Elena, il Potere ci ha in realtà mostrato, con rinnovata chiarezza, la sua capacità di trasformarsi per “cavalcare” il cambiamento quando questo è già in atto, senza tuttavia giungere mai a rinnegare se stesso. Senza abbandonare cioè la volontà di dominio e di controllo sulla popolazione adoperando gli strumenti più adatti a nascondere, volta a volta, i suoi veri obbiettivi.
Napoleone fu dunque un utile strumento, dalla grande potenzialità comunicativa, che contribuì ad affermare l’idea che gloria ed onori fossero il corrispettivo di successi e conquiste militari piuttosto che il risultato di una politica volta al superamento di situazioni di arretratezza e subalternità sociale che costituiva uno dei principali obbiettivi originari della svolta rivoluzionaria francese.
Non se ne dolga quindi il Manzoni se qualcuno, dopo di lui, preferirà allontanarsi da quella visione celebrativa ed ahimè deformante dell’esperienza napoleonica che infine traspare dalla sua ode, nonostante tutto (2).
Abbandonare questo tipo di “romanticismo” può significare oggi recuperare uno sguardo più distaccato ma anche più vicino alla realtà su di una storia, sicuramente più dolorosa, ma molto più ricca di insegnamenti veri, che ci possa guidare a comprendere meglio il senso del nostro passato ed anche, ma forse soprattutto, del nostro presente e del nostro futuro.
NOTE:
1) Il riferimento è all’ode intitolata “Il cinque maggio”, composta da Alessandro Manzoni nel luglio del 1821, in occasione della morte di Napoleone Bonaparte avvenuta nell’isola di S.Elena. In particolare il riferimento è diretto alla sesta strofa ed al suo incipit: “Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza…”
2) Mi riferisco qui all’interpretazione in base alla quale il Manzoni avrebbe “sospeso” il proprio giudizio sull’operato di Napoleone dando maggior peso al ruolo ch’ebbe la sua presunta conversione religiosa avvenuta sul letto di morte a coronamento della propria vita vissuta “avventurosamente”.
*) Immagine di copertina: Horace Vernet – La battaglia del ponte di Arcole (1826) – Christie’s – Londra