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Fra i motivi più comuni per cui si può decidere di accostarsi ad un’opera d’arte ci può essere il desiderio di soddisfare un piacere momentaneo, ed, approfittando di porzioni disponibili del nostro tempo libero, di concedersi un’occasione di puro intrattenimento. Oppure, può anche capitare di esser mossi dall’intenzione di allargare, interessandosi dell’arte, il campo delle nostre conoscenze generali, quasi che queste potessero esser considerate alla stregua di oggetti, da depositare poi nel “magazzino” della nostra erudizione.
Più difficile è invece trovarsi nel caso in cui il nostro interesse venga spinto dall’idea di trovare in essa, nell’opera d’arte, qualcosa di utile. Qualcosa che possa realmente servire a migliorare la nostra vita, qualcosa che l’Artista, grazie alle proprie conoscenze ed al proprio talento, abbia inteso offrire, quale dono personale, all’umanità.
Eppure è proprio dall’idea dell’ “utilità” dell’arte, idea che oggi è stata quasi completamente cancellata, che occorre partire per scoprire il senso vero e profondo di tante opere giunte fino a noi e che ancora non siamo stati in grado di comprendere.
E se per esempio, ci volessimo dedicare alla lettura dell’Amleto di Shakespeare, senza dare troppo peso ai dibattiti, tutti interni alla “storia della letteratura e del teatro”, tesi a mostrarne l’originalità rispetto al contesto dell’età elisabettiana e del rinascimento inglese, potremmo iniziare a scoprire, un po’ per volta, qualcosa di meraviglioso.
L’Amleto, forse la più famosa tragedia di Shakespeare, è infatti soltanto in apparenza una tragedia “di vendetta”, in cui si narra semplicemente, attraverso la manifestazione di grandi sentimenti contrapposti, la vicenda del trono di Danimarca usurpato con l’inganno e della reazione del Principe ereditario il cui padre era stato assassinato.
Essa riguarda in realtà in generale la condizione dell’essere umano nella sua evoluzione (rappresentato dal Regno di Danimarca) descritta a partire delle sue varie componenti strutturali più sottili, le parti dell’anima e lo spirito, (rappresentate dai personaggi), che entrano vicendevolmente in rapporto rivelandone in profondità le caratteristiche ed i rispettivi ruoli.
L’arte drammatica sarebbe dunque per Shakespeare un’arte conoscitiva, il cui intento sembra confermato dalle stesse parole di Amleto quando dice di essa che vuole “reggere lo specchio alla natura, mostrare alla virtù il suo volto,e al vizio la sua immagine” (2). Un’arte che ha quindi come obbiettivo quello di mostrare agli uomini la propria reale essenza e di fare in modo che essi ne divengano, progressivamente, sempre più consapevoli.
Leggendo l’Amleto a partire da questo punto di vista tutti i personaggi appaiono così sotto una luce nuova, che rende i loro “colori” più vivaci e veri, mettendoli in relazione tra di loro secondo meccanismi estremamente reali e “riconoscibili” se paragonati a quelli esistenti nell’interiorità umana.
La storia dell’Io umano, visto nella sua evoluzione, è rappresentata dai re, e si muove da una condizione “ordinaria” legata al passato (rappresentata dal vecchio re Amleto) in direzione di una condizione “superiore”, passando attraverso un processo di “crescita” (rappresentato dal giovane Principe Amleto, figlio e successore designato del vecchio re).
Il processo evolutivo dell’essere, di cui l’Io fa parte, viene tuttavia ostacolato e deviato nel momento in cui al vecchio Io (che viene oscuramente tolto di mezzo con il veleno) subentra un Io nuovo, orientato in direzione fortemente egoica (Claudio, fratello del re assassinato e zio del Principe Amleto), che prende repentinamente possesso dell’essere (il regno) unendosi all’anima (la regina Gertrude, moglie del defunto re e madre di Amleto) che, per parte sua, si lascia facilmente “conquistare”.
La situazione, se vista in chiave evolutiva, appare quindi fortemente compromessa (“C’è del marcio in Danimarca”) poiché l’essere-regno si trova stretto in pugno da potenti forze egoico-predatrici che influenzano e controllano la gran parte del corpo astrale (la corte reale) oltre alla parte inferiore dell’anima, quella dominata dalle passioni più arbitrarie ed individuali (la regina Gertrude).
E qui nascono le difficoltà dell’Io-Spirito, quello già avviato verso un processo di crescita spirituale (il Principe Amleto) che vorrebbe “incarnarsi” per svolgere il proprio compito evolutivo-risanatore, ma che trova la strada ostruita da un’anima in parte corrotta (la regina) ed in parte non pronta (Ofelia) perché ancora soggetta, quest’ultima, ai condizionamenti di quella parte razionale del corpo astrale, priva di etica, (rappresentata da suo padre Polonio) già caduta al sevizio dell’ego.
E qui risiede appunto il vero “dramma” di tutto l’Amleto, ove ciò che rappresenta lo Spirito non può incarnarsi non trovando la “sponda salvifica” offerta dal Femminile-Spirituale-Divino. Non potendo contare sull’appoggio di quell’Anima Cosciente, frutto dell’Amore che entra nel pensiero umano, che gli permetterebbe di mediare tra la sua volontà ed i suoi comportamenti, per fargli compiere l’azione giusta, amorosa e consapevole, al momento giusto.
Ed ecco dunque spiegate tutte le difficoltà incontrate dall’Amleto-Spirito, i suoi tentennamenti, e le sue invettive:
“Oh se questa carne troppo dura
si sciogliesse, dal suo gelo in rugiada!
(…)
Come sembrano sterili e ammuffite
e piatte le abitudini di qui”
e poi, rivolto a sua madre:
(…)“fragilità, il tuo nome è femmina”.(3)
Con tutto questo lo Spirito cerca comunque di agire con gli strumenti a sua disposizione, che comprendono le intuizioni divine (Amleto è l’unico fra i personaggi che riesce a comunicare con lo spirito del padre), e cerca di capire come stanno realmente le cose.
Esso mostra quindi le due doti di “capocomico” (lo Spirito è in effetti destinato a divenire in futuro il “regista” del nostro essere) ricreando sul piano astrale (la finzione scenica predisposta con gli attori) il dramma del tradimento dell’Io (avvenuto nella realtà con l’omicidio del vecchio re ad opera del fratello). Ed in effetti riesce a suscitare nell’Io deviato, per via di sentimento, un sussulto di riflessione e di preghiera.
E qui compare persino un riferimento al primo peccato dell’umanità (il gesto fratricida), lo stesso che però mise in moto l’intero processo evolutivo che è tutt’ora in atto. Qui l’Io, cui mancano improvvisamente le forze, si rivolge al Cielo, ma non è in grado di far seguire alle parole i fatti:
“In alto debbo guardare: la mia colpa è passata.
Ma quale forma di preghiera può valermi?
“Perdona il mio delitto” … non serve
perché sono ancora in possesso degli oggetti
per i quali ho ucciso: la corona, la regina, la mia ambizione stessa.
Si può essere perdonati e tenersi il frutto del crimine?”(4)
Ed infatti la situazione non migliora, anzi precipita.
Lo Spirito agisce senza accortezza (Amleto uccide Polonio) nel tentativo di fare pulizia (“c’è dunque un topo? Per un ducato! eccolo bell’e morto!”) (5) e viene allontanato dall’essere-Io con l’intenzione di eliminarlo definitivamente (Amleto viene mandato in Inghilterra dove gli dovrà essere teso un tranello). E quella parte dell’anima non cresciuta e quindi ritenuta dallo Spirito incapace di servire alla crescita perde, del tutto, la coscienza (Ofelia impazzisce) per poi essere definitivamente sopraffatta dal fluire delle passioni (Ofelia annega, forse suicida, nel fiume).
Finché, per azione del destino, lo Spirito torna in scena, benché ormai consapevole di non avere strumenti adeguati (“Solo” e “nudo”) per raddrizzare la situazione. Gli resta soltanto l’intermittente follia, che rappresenta l’incapacità (o l’impossibilità) di trasmettere verità spirituali, e la consapevolezza dell’effettiva inconsistenza del mondo della materia (le riflessioni sui corpi dei defunti nella scena con i becchini).
Tutto si conclude con il trapasso dell’essere nei mondi superiori (i protagonisti muoiono in occasione del duello tra Amleto e Laerte) e sarà soltanto quella parte dell’anima già cresciuta a sufficienza da non essere più soggetta all’influenza delle passioni (Orazio, l’amico di Amleto (6) , è l’unico che non viene ucciso nella strage) che sopravviverà portando con sé il ricordo e l’esperienza della vita appena trascorsa, in modo da consentire, in una successiva rinascita terrena dell’essere (Amleto designa Fortebraccio come successore nel regno di Danimarca) , un’ulteriore crescita della Coscienza (di cui si è sperimentata la necessità) che abbia inizio a partire da un livello più alto.
Dice Amleto che ha ormai concluso il suo compito:
“Orazio, sono morto; tu vivi; parla tu
rettamente di me e della mia causa
a chi vorrà saperne di più”
(…)
“O buon Orazio, se le cose restassero ignote,
che nome offeso lascerei dietro di me!
Se tu mi tieni nel cuore,
appàrtati dalla felicità per qualche tempo
e vivi e respira ancora il tuo dolore,
in questo duro mondo, per raccontare
la mia storia.” (7)
Il ruolo positivo svolto dallo Spirito viene infine comunque riconosciuto, e vi è anche la consapevolezza del fatto di come i tempi non fossero ancora maturi per una sua incarnazione.
Ed è infine nel suo nome e con la conferma della “centralità” del suo compito che tutto può ricominciare, cosi come traspare dalle parole di Fortebraccio (8) che sono poste a conclusione di questa straordinaria opera:
“Quattro capitani mettano Amleto sul palco,
come un soldato. Si sarebbe mostrato
veramente regale, se il suo momento fosse giunto.
Salutino il suo passaggio terreno, e parlino
alto per lui musiche e riti di guerra.
Portate via i morti. È una vista che conviene
al campo di battaglia, non a questo luogo.
Suvvia, dite ai soldati di sparare.” (9)
NOTE:
1) “Il mondo è fuori squadra: che maledetta noia,
esser nato per rimetterlo in sesto”.
2) Shakespeare, “Amleto”, III,2.
3) Ibid. I,2.
4) Ibid. III,3.
5) Ibid. III,4.
6) Dice Amleto rivolto ad Orazio:
“(…) Da quando l’anima mia fu signora
della sua scelta e seppe distinguere tra gli uomini,
essa ti ha suggellato per sé, perché tu sei uno
che soffrendo di tutto non soffre di nulla,
uno che accoglie favori e ceffoni dalla Fortuna
con lo stesso spirito imperturbabile.
Benedetti davvero coloro che per giusta dosatura
di sangue e di ragione non son come flauti
su cui la Fortuna fa suonare il foro che più le piace.
Datemi un uomo che non sia schiavo della passione,
ed io lo terrò nel più profondo del cuore
come faccio con te. (…)” (III,2).
7) Shakespeare, “Amleto”, V,2.
8) Principe di Norvegia, figlio del vecchio re Fortebraccio che fu ucciso dal vecchio re Amleto per una disputa territoriale.
9) Shakespeare, “Amleto”, V,2.
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