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“Sol chi non lascia eredità d’affetti
Poca gioja ha dell’urna;”
Giovane, idealista e di indole avventurosa, Ugo Foscolo visse intensamente gli anni in cui, sul finire del XVIII secolo, le armate di Napoleone percorrevano l’Italia settentrionale facendosi portatrici delle idee politiche rivoluzionarie.
Combatté a fianco dei francesi alla Trebbia, a Novi ed a Genova (e venne ferito due volte), contro quell’impero d’Austria che ai suoi occhi rappresentava l’ostacolo e la reazione al tentativo italiano di coltivare e far crescere uno spirito di popolo finalmente unitario.
Deluso dalla scelta del Bonaparte di cedere Venezia all’Impero austriaco, ratificata dal trattato di Campoformio, divenne rappresentante dell’antinapoleonismo in letteratura ed iniziò a maturare una visione pessimistica del corso della storia.
Un pessimismo dettato dalla situazione italiana in particolare, ma anche più in generale da una visione del mondo fondata su basi meccanicistiche, in cui era assente ogni forma di finalismo.
Allontanatosi progressivamente da posizioni ideologiche di marca giacobina, preferì comunque l’esilio al compromesso con il quadro politico restauratore succeduto al governo francese, e divenne uno dei primi intellettuali d’opposizione a fungere di esempio di coerenza per i giovani letterati risorgimentali.
Romanziere e, soprattutto, poeta, sentì fortemente l’influenza di Wolfgang Goethe, da cui si fece guidare nella stesura del romanzo epistolare “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, per molti aspetti simile a “I dolori del giovane Werther”, opera del grande letterato tedesco.
Romanzo introspettivo e sperimentale, per via dello stile e del tema trattato, l’Ortis è stato definito dalla critica un “romanzo lirico”, in cui un linguaggio sostenuto, enfatico e non colloquiale si sviluppa in un intreccio di vicende d’amore e di patriottismo, dall’esito interessante ed innovativo.
Emerge tuttavia già in queste pagine la visione di un quadro storico sostanzialmente negativo, viziato da egoismi, lotte e sopraffazioni, cui si aggiunge una crescente inquietudine interiore del protagonista che non trova, nell’opera, alcuna forma di compensazione:
« Taci, taci : vi sono dei giorni ch’io non posso fidarmi di me : un demone m’arde, mi agita, mi divora. Forse io mi reputo molto ; ma e’ mi pare impossibile che la nostra patria sia così conculcata mentre ci resta ancora una vita. Che facciam noi tutti i giorni vivendo e querelandoci? Insomma non parlarmene più, ti scongiuro. »
(…) « Ecco tutto ne’ suoi veri sembianti. Ahi ! Non sapeva che in me s’annidasse questa furia che mi investe, m’arde, mi annienta, eppur non mi uccide. Dov’è la natura? Dov’è la sua immensa bellezza? Dov’è l’intreccio pittoresco de’ colli ch’io contemplava dalla pianura innalzandomi con l’immaginazione nelle regioni dei cieli? Mi sembrano rupi nude, e non veggo che precipizi. Le loro falde coperte di ombre ospitali mi son fatte noiose: io vi passeggiava un tempo fra le ingannevoli meditazioni della nostra debole filosofia. A qual pro se ci fanno conoscere le infermità nostre, né porgono i rimedi da risanarle? – Oggi io sentiva gemere la foresta ai colpi delle scuri: i contadini atterravano i roveri di duecento anni : tutto père quaggiù. » (1)
Assente nell’analisi storico-politica, un senso compiuto della vita deve dunque trovare in Foscolo altre strade per dare risposte adeguate alla situazione disperante, interiore ed esteriore, in cui l’io del poeta sembra dibattersi.
Questo senso cercato, ed infine trovato, coinvolge il poeta in prima persona, assegnando alla poesia stessa, e quindi all’attività poetica, un compito preciso.
Depositaria del segreto della bellezza la poesia ha, per Foscolo, di per se stessa, valore consolatorio di fronte agli effetti dei limiti dati della condizione umana. Ed essendo in grado di fissare l’esperienza estetica al suo livello più elevato ha la capacità di renderla immortale.
Foscolo celebra così, con la sua arte, l’essenzialità della bellezza e la sua necessità, accordandosi ai canoni dell’estetica neoclassica.
Nell’ode “All’amica risanata”, vero prodigio stilistico e compositivo, la bellezza emerge come valore a se stante, quasi presentandosi come l’effetto di una sorta di guarigione cui affidarsi per compensare i mali intrinsechi alla condizione umana.
Qual dagli antri marini
L’astro più caro a Venere
Co’ rugiadosi crini
Fra le fuggenti tenebre
Appare, e il suo viaggio
Orna col lume dell’eterno raggio
Sorgon così tue dive
Membra dall’egro talamo,
E in te beltà rivive,
L’aura beltate ond’ebbero
Ristoro unico a mali
Le nate a vaneggiar menti mortali. (…) (2)
Bellezza e guarigione, quindi, illuminano ad un certo punto la visione pessimistica del Foscolo di un nuovo bagliore, ma non basta.
L’esperienza poetica continua infatti a lavorare per lui su più piani, conducendo il Foscolo ad indagare riflessivamente sul tema della morte ed a rimetterne in gioco il ruolo positivo rispetto all’esistere.
Nel sonetto “Alla sera” il termimine della vita assume funzione pacificatrice ed il suo giungere porta sollievo lungo il fatidico percorso che conduce, nella visione materialistica cui Foscolo aderisce, “al nulla eterno”.
Ma qui il pessimismo, che nasce inevitabilmente in ogni coerente visione materialistica del mondo, e che, ad esempio in Leopardi, verrà condotto alle sue più estreme conseguenze, inizia a trasformarsi nel suo contrario.
E se la morte, di per sé, non è un danno, forse nel suo mistero, e nel suo carattere di stabilità che si contrappone al quotidiano ed inutile affannarsi, risiede la chiave per ricostruire un quadro più ampio dell’esistenza umana.
E in un’orizzonte così allargato può esser compreso ciò che di immateriale agisce nella materia e che crea legami eterni.
“Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
Di gente in gente, mi vedrai seduto
Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.” (…)
Così, nei primi versi del sonetto “In morte del fratello Giovanni” Foscolo contrappone al vivere frenetico ed oppositivo degli anni che ancora attendevano di esser vissuti il rinnovarsi di un rapporto esistito in precedenza con il fratello defunto, coltivato attraverso la preghiera.
Una preghiera che auspica la pace per l’anima del fratello, seguendo inaspettatamente il solco delle più profonde tradizioni del cristianesimo originario.
E se poi si considera che il Foscolo, formatosi culturalmente in un clima di tradizione illuminista e vicino al sensismo (3), rivolge la propria attenzione al di fuori della realtà sensibile, per cercare di ricostruire un senso compiuto dell’esistere basato sull’amore e sui rapporti umani, ci si accorge che qualcosa di particolare è presente nella sua opera. E che si tratta di un qualcosa che non è stato ancora sottolineato a sufficienza.
A ciò che, riferendosi in particolare al carme “Dei sepolcri”, è stato generalmente definito il valore civico e patriottico del culto dei defunti, va quindi aggiunto un elemento in più, e più vicino alla ricerca interiore che certamente il Foscolo praticava.
Un elemento che contiene in sé l’intuizione dell’importanza di mantenere un rapporto di vicinanza con i propri cari anche dopo la loro morte, cui affidarsi per cominciare a ricostruire una visione più completa e ricca del destino umano.
Un elemento che andrebbe indagato e scoperto anche al di fuori dei limiti di un’interpretazione letteraria, cosicché anche il Foscolo, e la sua opera, possano acquistare una nuova attualità, ed essere riconosciuti per la loro effettiva importanza nel complesso scenario della cultura dell’ottocento e non solo.
NOTE :
1) in: Ugo Foscolo, “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, Einaudi,Torino 1983.
2) dall’ode : “All’amica risanata”, in: Ugo Foscolo, “Tutte le poesie”, B.U.R., Milano, 1952.
3) dal vocabolario Treccani : « Sensismo: In filosofia, la dottrina gnoseologica che considera ogni contenuto di conoscenza, non esclusi quelli tradizionalmente fatti procedere da superiori facoltà conoscitive, come derivato, o direttamente o indirettamente, dall’esperienza sensibile. »
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