Con l’avvenuto completamento della terza torre di cui si compone l’emergenza architettonica che caratterizza il progetto denominato “CityLife” mi è sembrato necessario mettere per iscritto alcune considerazioni, che ritengo doverose, al riguardo di questo intervento e, più in generale, di quello che si sta configurando come nuova linea di indirizzo per i progetti urbani, espressa sotto forma di scelte strategiche, diretta a trasformare sia l’immagine della città di Milano che, seppure in modo non del tutto evidente, la sua qualità abitativa.
In generale, costruire nuovi edifici alti, o quantomeno approvarne la costruzione, in una realtà cittadina esistente significa scegliere di mettersi in rapporto con la sua immagine complessiva, ed apprestarsi, consapevolmente o no, modificandone il profilo a trasformare anche il suo carattere e la sua identità, rispetto a come questi si erano consolidati nel corso del tempo.
Se si guarda al caso di Milano ci si accorge che la città, per un periodo abbastanza lungo, ha avuto nel proprio Duomo, la cui costruzione si è protratta per diversi secoli, il principale riferimento visivo emergente rispetto alla gran parte del costruito. Ed è stata certo questa sua costante “presenza” sullo sfondo del panorama cittadino a far diventare il Duomo stesso il principale simbolo della città, che poteva essere pensata come se volesse raccogliersi attorno alla propria cattedrale in segno di devozione e di ricercata unità.
È stato soltanto a partire dal secolo scorso che la situazione ha cominciato a cambiare, fino a giungere, da qualche decennio a questa parte, al costante tentativo in atto da parte di diversi operatori immobiliari di introdurre nuovi elementi emergenti che si ponessero in aperta contrapposizione con l’immaginario tradizionale, con l’intento dichiarato di modificare lo “skyline” cittadino per far sorgere un’immagine rinnovata ed alternativa dell’intera città.
Tutto questo accade come se si trattasse di un processo inevitabile e senza che ai progetti in corso di realizzazione venga rivolta la dovuta attenzione.
Essi vengono tuttavia accolti facendo semplicemente eco all’ufficiale entusiasmo dei principali media, che li presentano come non ben definite testimonianze di rinnovamento e progresso urbano.
Ciò che viene tralasciato è invece il considerarne gli aspetti più rilevanti, che in effetti riguardano un’inedita idea di ciò che si vuole che la città diventi nel futuro ed il ruolo che viene fatto assumere all’architettura, usata strumentalmente, in chiave monumentale, all’interno di queste operazioni.
La storia del progetto “CityLife” cominciò a svolgersi, per quello che sappiamo, quando nei primi anni duemila ebbe luogo il riposizionamento delle funzioni espositive della Fiera di Milano dalla loro sede storica ai nuovi ambienti progettati appositamente fuori dalla città. La circostanza rese disponibile a nuove edificazioni l’ampia area urbana, di proprietà dell’ente Fiera, compresa tra largo Domodossola e piazzale Giulio Cesare e si crearono le condizioni per operare un intervento immobiliare di grande rilevanza, che avrebbe influito, a vari livelli, sulla trasformazione dell’intero settore occidentale della città.
Venne allora bandita una gara internazionale che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei promotori, offrire garanzia alla collettività circa la trasparenza della procedura con cui si sarebbero assegnate le aree (1), e vennero formulate delle “linee guida”, di concerto con l’amministrazione comunale, che informassero il lavoro dei progettisti chiamati a formulare le loro proposte. (2)
Occorre ricordare a tal proposito che Fondazione Fiera Milano, promotrice dell’iniziativa, agiva come soggetto economico privato, e che la Pubblica Amministrazione, pur formalmente coinvolta nel dibattito preparatorio al concorso, sarebbe entrata effettivamente in causa solo in sede di approvazione dello strumento attuativo del Piano di Governo del Territorio, opportunamente conformato al progetto vincitore. (3)
Nella realtà, nonostante i buoni propositi annunciati, se si va ad esaminare la composizione del consorzio alle spalle del progetto vincitore, si scopre l’esistenza di strani intrecci di interesse e forme di partnership a vario livello tra gli enti giudicanti del concorso ed il principale investitore (Generali S.p.A. cui si affianca il gruppo Allianz) presente nella struttura finanziaria di CityLife. Fatto che sembra dimostrare come dietro alle operazioni di facciata l’assegnazione dell’incarico fosse già decisa a priori.(4)
Niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire dunque in proposito, compresa la solita manfrina (il concorso) che viene fatta precedere alla messa in atto di scelte già compiute in altra sede.
Ma che cos’è che, al di là delle belle parole spese, ha fatto muovere realmente e convergere in un unica operazione grandi gruppi finanziari, enti promotori di eventi fieristico commerciali internazionali e Think-tank della pianificazione immobiliare e ambientale? Cosa c’era in più, oltre all’obbiettivo imprenditoriale dello sfruttamento di aree ad altissimo valore immobiliare che comunque è stato raggiunto, che giustificasse una regia in grado di unire risorse economiche e tecnico-organizzative di così ampia portata su di un piano evidentemente prestabilito ed eterodiretto?
Vi era appunto ciò di cui si diceva all’inizio, e cioè l’intenzione di dettare una “linea” della trasformazione urbana e dell’immaginario cittadino diretta alla sostituzione dei riferimenti culturali precedenti con nuovi elementi, sia funzionali che simbolico-formali, come vedremo di qualità “contraria”, mascherati da interventi il cui preteso alto valore culturale potesse essere riconosciuto internazionalmente.
La strategia utilizzata per attuare il colossale mascheramento del progetto è stata quella della “brandizzazione” degli edifici: ciascuna delle tre torri–immagine del progetto è stata identificata con il nome del suo progettista, che, in quanto tale, è stato offerto come garanzia del valore intrinseco dell’edificio stesso.
È stato in pratica utilizzato un metodo proprio degli ambienti pubblicitari, in base a cui l’uso del nome della casa produttrice funge da marchio di qualità per il nuovo prodotto che, a quel punto, non può più essere messo in discussione, ottenendo così l’effetto sia di inibire qualsiasi nuova critica di fronte al peso di un’autorità preesistente e riconosciuta, che, d’altra parte, di sollevare il fruitore del prodotto dalla responsabilità di esercitare direttamente la propria capacità di giudizio critico ed il proprio buonsenso.
Ma da dove arrivano questi tre architetti, ciascuno autore di una torre, la cui “fortuna” internazionale ed i titoli ottenuti hanno fatto sì che confluissero a lavorare su questo importante progetto? E per quale motivo sono stati scelti proprio loro, che pur dichiarando di collaborare ad un tema unitario hanno cercato nei fatti in ogni modo di far prevalere il carattere autoreferenziale del proprio lavoro? (5)
Probabilmente, senza volersi soffermare in modo specifico sulle caratteristiche del modo di lavorare di ciascuno, ha contato soprattutto una certa disponibilità dei tre a compiere nei propri progetti delle vere operazioni di stravolgimento delle forme più classiche, per non dire tradizionali, dell’architettura, per condurre invece il lavoro nella direzione dell’irregolarità e del disequilibrio, senza che vi fosse altro motivo che un’intenzione puramente intellettuale, e dunque astratta, che facesse da guida a quella ricerca.
Anche se si guarda alle loro opere precedenti, a partire da quelle del giapponese Arata Isozaki, autore dell’edificio meno “deformato” dei tre, si nota sempre il tentativo di forzare il volume architettonico in modo da comprometterne l’equilibrio e la proporzione compositiva, salvo poi cercare di recuperare la loro stabilità strutturale ricorrendo a ingegnosi quanto complicati artifici tecnologici. (6)
Per quanto riguarda gli altri due personaggi coinvolti, l’anglo-irachena Zaha Hadid e lo statunitense Daniel Libeskind, essi fanno direttamente parte a pieno titolo di una particolare corrente dell’architettura post-moderna definita “decostruttivismo”, il cui canone (se di ciò si può dire) appare essere appunto quello di progettare avendo l’idea di smontare e rimontare in modo incongruo ciò che è normalmente definito, con l’evidente intento di rendere interessante il lavoro compiuto proprio per via della sua intrinseca contraddittorietà formale.
Ora è chiaro che da siffatti progettisti, chiamati a convenire su di un unico tema comune ipoteticamente tripartito, non ci si poteva aspettare che derivasse un risultato, non dico unitario, ma neppure lontanamente armonico nell’espressione delle sue parti costitutive, laddove i singoli edifici mancano già di armonia e proporzione nelle loro stesse forme.
E ci si potrebbe anche soffermare a lungo sulle contraddizioni interne di questo loro “modo” di progettare, caratteristico, sia pure con delle differenze, di tutti e tre.
Per indicare come un pensiero totalmente astratto, che ha trovato legittimazione ed alimento a partire da alcune ricerche condotte nel secolo scorso nel campo delle arti figurative, si scontri in architettura con la natura pratica di questa arte, che invece ha necessità di trovare un accordo con la materia rispettandone le leggi costitutive.
Un modo di progettare che rivela l’incapacità di controllare proprio nei dettagli costruttivi gli effetti materiali di quei gesti scultorei fuori-scala, inopinatamente ambiziosi, e che crede di risolvere con la tecnologia le contraddizioni che nascono da quelle stesse idee che si è creduto di poter seguire, subendone, spesso inconsapevolmente, la forza seduttiva.
Ma è certamente più importante tornare a chiedersi quale sia il senso vero di queste operazioni, di cui CityLife costituisce un esempio, che vedono convergere le risorse messe a disposizione dal grande capitale finanziario su piani architettonico-funzionali ben definiti, che sarebbero di per sé impresentabili ed inaccettabili se non fossero accompagnati da una precisa opera di condizionamento culturale e se non contassero sull’appoggio di quella parte della natura umana più debole e “condizionabile”, quella più propensa a scegliere comportamenti ed abitudini orientate ai consumi ed al soddisfacimento dei bisogni individuali.
Si tratta, se vogliamo dirla tutta, di operazioni studiate nei dettagli e soltanto apparentemente “di facciata”, che tendono in realtà, al di là dell’esito imprenditoriale che serve solo a remunerare il braccio operativo del sistema decisionale, a consolidare forme di condizionamento psichico-culturale dirette a formare, o più propriamente a de-formare, abituandoli al peggio, i cittadini di un prossimo futuro.
Qui l’immagine della città diventa sostanza, e, in fondo, quella proposta con CityLife è la concretizzazione di un luogo in cui il consumo effimero e lo svago (si tratta in questo caso di uno dei maggiori comparti commerciali d’Europa) vengono offerti come dono alla collettività nel contorno di uno scenario surreale.
Uno scenario dominato da forme gigantesche ed antiumane, che recando su di sé il marchio del potere tecnocratico-finanziario cui siamo in realtà affidati, delineano sull’orizzonte una sorta di dialogo disarticolato ed impossibile, evocando il materializzarsi di una specie di trinità al contrario.
Un po’ come avveniva nei fori delle città imperiali romane, in cui si celebrava la figura del Princeps – Imperatore, rappresentante in terra di potere politico e religioso uniti assieme, così oggi, approfittando della perdita del senso del sacro prodotta da oltre un secolo di materialismo spinto, i grandi poteri mostrano direttamente il loro volto, non a caso privo di ogni bellezza, che cercano di far accettare come tale, nel tentativo di allontanare ancora una volta gli esseri umani dal percorso di riscoperta della loro natura spirituale libera e superiore.
Occorre dunque molta attenzione. E serve cominciare ad accettare l’idea che anche l’arte, e l’architettura con lei, possono essere usate per ottenere certi scopi che non sono quello della crescita delle coscienze umane, ma che tendono a perpetuare forme di controllo esercitate da antichi poteri in funzione dei loro interessi, non soltanto materiali, che essi da sempre perseguono.
Quindi rimaniamo vigili, e non disperiamoci se la cultura ufficiale promuove certe operazioni contando sulla disattenzione e l’inconsapevolezza della gente. Perché se è vero che, come a volte si dice, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, allora vuol dire che gli strumenti necessari per non cadere nelle sue trappole sono ancora a nostra portata di mano.
Basterebbe ad esempio, per cominciare, riuscire ad aprire davvero gli occhi ed iniziare a guardare il mondo distinguendo i volti dalle tante maschere che ci vengono poste di fronte.
E basterebbe provare a credere un po’ di più nelle nostre capacità che possiamo esercitare, a cominciare da quella di riconoscere la vera bellezza, sia dentro che fuori di noi, per tornare ad ascoltare, da soli, senza che nessuno venga a spiegarcela, la lingua degli Dei.
NOTE:
1) “Sviluppo Sistema Fiera – la società di engineering e contracting per grandi opere controllata da Fondazione Fiera Milano – il 4 aprile 2003, ha pubblicato il Bando di prequalifica per titoli per invitare le società a presentare i progetti urbanistici e di rifunzionalizzazione dell’area, l’offerta e le credenziali per l’acquisto della stessa.”
Fonte: www.milanocity.com
2) “Le linee culturali portanti dell’intervento sono state individuate dall’ascolto delle aspettative della città grazie ad una serie di interviste condotte da esponenti del mondo accademico, dell’impresa, dei servizi e dei media-svolte dallo stesso Presidente della Fondazione, Luigi Roth, e dall’Assessore allo Sviluppo del Territorio del Comune di Milano, Gianni Verga.
I risultati dell’indagine sono serviti da termine di riferimento per definire, in accordo con il Comune di Milano, le linee guida per la gara con cui è stato scelto il progetto per la trasformazione dell’area. Fondazione Fiera Milano ha scelto questo metodo nella convinzione che il progetto doveva essere il risultato di un ricorrente processo di consultazione con le istituzioni, che continua nel corso dei lavori per monitorare attese e risultati.
Le linee guida secondo le quali Sviluppo Sistema Fiera desiderava che i concorrenti sviluppassero l’intervento progettuale individuavano quale tema centrale dell’intervento di trasformazione la riconfigurazione dell’area come “nuovo centro di Milano”. Il tema principale doveva essere articolato secondo tre dimensioni, tra loro fortemente interagenti:
· emblematicità dell’intervento;
· vivibilità del luogo;
· qualità architettonica ed ambientale.”
Fonte: www.milanocity.com
3) Si tratta della corrispondente Convenzione Attuativa stipulata in data 12.12.2006.
4) Per citare i riferimenti più eclatanti:
Antoine Bernheim, già socio e gerente della banca d’affari Lazard, incaricata con ruolo di audit nell’esame dei progetti di concorso, è stato in carica quale presidente di Generali S.p.A. fino al 2012.
La stessa Lazard fu presente direttamente in Generali fino al 2001 con quota azionaria del 4,1%.
Urban Land Institute (ULI), società no-profit di consulenza immobiliare e uso del suolo operante a livello mondiale, incaricata dell’esame e valutazione dei progetti, annovera Allianz tra i suoi sponsor ufficiali.
5) “Milano è la città che meglio rappresenta il volto internazionale dell’Italia, paragonabile a Londra, Francoforte, Parigi. In tal senso, per noi, progettare a Milano rappresenta confrontarsi con il volto più contemporaneo dell’Italia”
fonte: citazione dalla relazione dei progettisti.
6) Esemplificativo della circostanza è l’utilizzo per la torre Allianz dei quattro grotteschi tiranti che compensano strutturalmente l’instabilità della forma dell’edificio, eccessivamente allungato e stretto alla sua base.
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