È certamente alla fase più matura dell’arte barocca che occorre guardare per comprendere gli sviluppi che hanno portato, nel corso del XVIII secolo, all’affermarsi di quel particolare gusto per la decorazione che divenne tipico degli ambienti aristocratici e che ebbe fortuna presso le principali corti europee.
Ma, per avere un quadro più completo delle tendenze artistiche che nel ‘700 entrarono in gioco, occorre anche tenere conto di quelle esperienze particolari che, allontanandosi dai modelli classici, si legarono a posizioni più vicine a forme di realismo e quotidianità, e che servirono a preparare il terreno ad un arte rivelatasi in seguito più rispondente al nuovo orizzonte culturale che si stava formando alle soglie dell’epoca contemporanea.
Perduta, dopo il rinascimento, la sua unitarietà, ed ormai incapace di offrire risposte universalmente valide rispetto alle grandi questioni esistenziali con cui l’umanità era chiamata a misurarsi, la funzione artistica cominciava infatti ad esprimersi su piani distinti e, per certi aspetti, tra loro contrapposti.
Il tentativo di interpretazione della realtà prodotto dagli artisti con la loro opera dava luogo a quel punto a visioni frammentate, fortemente parziali, e quindi complessivamente inefficaci rispetto ad una lettura che potesse fare chiarezza del processo evolutivo in atto, rispetto al quale le coscienze umane erano esposte a nuove, inaspettate ed incalzanti sollecitazioni.
É quindi da opere come quelle di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), dalla loro quasi imbarazzante “opulenza”, che occorre partire per cogliere il germe della vocazione decorativa e priva di reali contenuti che si esprime nel corso del ‘700 e che è stata classificata in seguito come stile “rococò”.
Già l’arte barocca era stata infatti un’arte che faceva del proprio linguaggio il vero oggetto della sua ricerca, conducendolo purtuttavia a livelli espressivi di grande raffinatezza.
Essa non aveva pretese di autonomia, bensì poneva il proprio sovrabbondante codice espressivo al servizio delle esigenze del “principe” di turno, sia che si trattasse del papato romano, come nel caso di Bernini, Borromini e Pietro da Cortona, sia che riguardasse più laicamente le maggiori monarchie europee, quella francese e quella spagnola, come nel caso di Pieter Paul Rubens (1577-1640) e di Diego Velasquez (1599-1660).
In modo analogo accade quindi, nel secolo successivo, per il rococò, termine di derivazione francese con cui si dà nome al gusto sviluppatosi come arte di corte nella prima metà del 700 , che rende appunto conto dell’evoluzione di una produzione artistica destinata a compiacere un pubblico sempre più ristretto ed elitario, che amava circondarsi di scenografie artefatte, scene mitologiche e situazioni galanti ambientate sullo sfondo di lussureggianti dimore e di giardini privati. (1)
É questa dunque una vera e propria arte dell’aristocrazia, che trova nella pittura spettacolare e celebrativa di Giovanbattista Tiepolo (1696-1770) la sua rispondenza ideale, e che si sviluppa avviandosi nella direzione di assumere un carattere di rottura quasi antistorica ed antipopolare nell’edificazione delle grandi e scenografiche “regge” delle corti europee.
Pensiamo in proposito ai palazzi di Caserta e Stupinigi per quanto riguarda l’Italia, ed a quelli di Versailles e Vienna in Europa, che con le loro dimensioni del tutto fuori scala rispetto all’edilizia corrente sembrano volutamente approfondire il solco separatore esistente tra ceti dominanti e popolazioni subalterne, preparando incautamente il terreno ad imminenti e tragici confronti e rivoluzioni sociali.
Ma le esperienze artistiche del seicento non erano, come dicevamo, limitate all’espressione più “aulica” di una realtà che era già carica, in effetti, di tensioni contrastanti, e si diffondevano anche nel descrivere direttamente episodi di vita quotidiana registrandoli nella loro immediatezza, oppure a trasferire i dati di un’osservazione obbiettivo-percettiva all’interno di temi rappresentativi della tradizione sacra o comunque devozionale.
E qui pensiamo ai Carracci, a Caravaggio ed ai suoi continuatori, per arrivare in ambiente napoletano alle figure di Mattia Preti (1613-1699) e Salvator Rosa (1615-1673) e poi, forse più significativamente, fino a Gaspard van Wittel (1653-1736).
Nel ‘700 l’eredità di questo filone, definibile genericamente come naturalistico, viene raccolta da Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), cui si può affiancare l’opera di Pietro Longhi (1702-1782), esponente di riferimento della pittura “di genere” a Venezia, nell’offrire in vari modi un apprezzabile spaccato della vita cittadina così come si manifestava nella realtà quotidiana.
Si sviluppa quindi una forma di osservazione della realtà che tende a collezionare situazioni ed immagini, senza la pretesa di comprenderne il significato, ma limitandosi a considerarne l’aspetto esteriore per descriverlo nei dettagli.
Persino l’antichità classica, che in passato era stata oggetto di uno studio attento, rivolto a comprenderne l’essenza costitutiva da parte dei maggiori artisti, viene adesso considerata alla stregua di un misterioso retaggio, utile a sollecitare la curiosità di qualche avventuroso umanista sul punto di intraprendere l’esclusiva esperienza del grand tour attraverso l’Europa.
Il “vedutismo” sorge quindi direttamente da questo atteggiamento, che si potrebbe definire di “presa d’atto” di ciò che si vede, e si sviluppa in modo tematico come vero e proprio genere.
A differenza dell’arte aristocratica, quindi, che era basata su fantasiosi repertori provenienti dalla tradizione classica e ricostruiti a tavolino, la pittura di vedute trae spunto dall’osservazione diretta, avvicinandosi in questo modo alla realtà attraverso una processo puramente visivo.
Questo atteggiamento analitico, che si traduce nella rigorosa procedura osservativa messa in atto dai pittori con l’ausilio di un’apposita apparecchiatura, determina contemporaneamente la qualità ed il limite delle rappresentazioni che da esso derivavano, e che incontrano, significativamente, un grande favore di pubblico in Europa.
La qualità risiede nella spinta genuina verso l’oggettività della rappresentazione, che avviene con l’affidamento completo al dato sensibile tradotto poi graficamente applicando la prassi prospettica derivata dagli studi rinascimentali.
Il limite sta nel confondere, da parte degli artisti, l’oggettività con la stessa procedura, rinunciando nei fatti a comprendere il senso della realtà e limitandosi a restituirne l’immagine esteriore, cercando quindi di ottenere un risultato unitario per sommatoria di dettagli a partire da un unico, convenzionalmente assunto, punto di vista.
I quadri di Canaletto (Giovanni Antonio Canal 1697-1768), che costituiscono il livello più rappresentativo del vedutismo veneziano, sono di una precisione stupefacente.
Grandi scenari luminosi, quasi asettici, restituiscono un’immagine di una Venezia descritta nei minimi dettagli, e che tuttavia, pur nella spettacolarità dell’effetto panoramico, sembra essere popolata soltanto da comparse teatrali. (2)
La grande attenzione compositiva e la fedele riproduzione dei dettagli anche più minuti poco ci dicono infatti della realtà della vita umana e del suo senso complessivo, dedicandosi soltanto alla elencazione, quasi una catalogazione, delle diverse attività che animavano la scena cittadina.
Canaletto descrive con distacco, quasi scientifico, ciò che vede, anticipando un atteggiamento culturale che diventerà dominante di lì a poco e che designerà oggetto di conoscenza soltanto ciò che si sarebbe reso accessibile grazie ai “lumi della ragione”.
È un’oggettività particolare dunque, quella da lui interpretata, che paradossalmente sembra allontanare dalla realtà “viva” il compito artistico, sostituendo ad essa una rappresentazione che pare essere stata messa a punto, con grande accuratezza, in un laboratorio.
Occorre allora forse confrontare l’opera di Canaletto con quella di Francesco Guardi (1712-1793) per riconoscere la differenza che passa tra un modo distaccato, quasi professionale, di guardare alle cose del mondo, ed un altro in cui il sentimento entra in gioco, dando profondità alla visione pur restando all’interno di una particolare chiave interpretativa.
Guardi rappresenta Venezia per vedute, come fa Canaletto, introducendo però nelle sue immagini, sfumandole in un’atmosfera fatta di vibrazioni, quel senso di precarietà e di decadenza che evidentemente si respirava nella Repubblica, ormai da diversi decenni, alla vigilia della sua caduta.(3)
Dunque Guardi si avvicina maggiormente al traguardo dell’oggettività della visione, rispetto a quanto non faccia Canaletto, seguendo la strada dell’ispirazione personale, che egli sceglie infine di non sacrificare, instaurando piuttosto una mediazione tra il proprio “sentire” artistico e l’adozione di un mezzo espressivo già collaudato in funzione di un procedimento sottoposto al prevalente controllo razionale.
D’ora in avanti, come si è visto più sopra, i percorsi artistici tendono perciò a dividersi ed a delinearsi maggiormente come risposta ad un certo tipo di committenza.
È lo stesso Tiepolo ad ammettere spregiudicatamente ad un certo punto che l’artista aveva necessità di prendere coscienza del proprio ruolo sulla base di valutazioni di tipo socio-economico, che sole costituivano la base concreta su cui fondare le proprie scelte culturali ed artistiche: ”Li pittori devono procurare di riuscire nelle opere grandi, cioè in quelle che possono piacere alli Signori Nobili, e ricchi, perché questi fanno la fortuna de’ Professori, e non già l’altra gente, la quale non può comprare quadri di molto valore. Quindi è che la mente del pittore deve sempre tendere al sublime, all’Eroico, alla Perfezione.” (4)
L’arte sta dunque facendo il suo ingresso nel mercato, ed iniziando ad essere soggetta a condizionamenti non più limitati al rapporto diretto artista-committente, ma che si estendono anche all’intervento dei ruoli intermedi della distribuzione e della vendita, di mercanti e galleristi, che ne rendono lo scenario più complesso e, certamente, più condizionabile.
E si tratta di un’arte complessivamente meno libera, di cui però si comincia a parlare, a partire dall’ambito illuminista, nei termini specialistici della “disciplina autonoma”.
Di essa si può, a questo punto, individuare e formulare una storia indipendente, compilata e commentata da una “critica” di settore opportunamente specializzata.
Su di essa è diventato possibile esprimere giudizi e valutazioni, facendoli derivare da una specifica teoria “estetica”, intesa come articolazione conoscitiva in corpo al sapere filosofico.
A quest’arte verrà infine attribuito un valore “sociale”, riconoscendola come potenziale strumento di educazione morale e civile, ponendo quindi le basi di un suo successivo sviluppo quale arte “militante” o “di corrente”, i cui esiti, spesso ambigui e contraddittori, arriveranno ad essere riconosciuti ed accettati fino ai giorni nostri.
NOTE:
1) Il termine rococò deriva dal francese rocaille, che si riferisce alle decorazioni di pietruzze e conchiglie per giardini, grotte e padiglioni. Esso venne in seguito utilizzato dai classicisti di fine ‘700 in chiave dispregiativa.
2) Significativo a questo proposito il fatto che Canaletto iniziò la sua attività come scenografo lavorando accanto al padre ed al fratello.
3) La Repubblica di Venezia cade, dopo secoli di prosperità ed indipendenza, per mano francese nel 1797.
4) In: Bairati-Finocchi, “Arte in Italia”, vol.III, Loescher, Torino, 1984. Pag.201
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