Il primo rischio da evitare, quando ci si accosta alla lettura de “Il Signore degli Anelli”, od anche alla visione della sua riduzione cinematografica che, in parte, ne conserva lo spirito, è quello di cadere nella trappola dei generi letterari. Nel ritenere cioè, a priori, che i caratteri di scrittura ed i contenuti dell’opera cui ci si rivolge, che la fanno appartenere ad una certa categoria in base alla quale è stata classificata, siano già di per sé indicativi della sua qualità e del suo valore, e che per quanto questa possa essere “ben fatta”, non possa tuttavia trasmettere altri messaggi che quelli attinenti alla “materia” di cui genericamente si occupa.
Seguendo questa modalità, infatti, verrebbe da pensare che il genere “Fantasy”, cui il romanzo di Tolkien viene comunemente accostato, ci indichi che quest’opera, costruita appunto sulla base di elementi espressivi provenienti da una tradizione fiabesca alimentata da una costante fantasia creatrice, non possa che trasmettere messaggi relativi a visioni totalmente inventate ed a mondi che non esistono, aventi per obbiettivo quello di offrire al lettore, per quanto possibile, soltanto un’occasione di puro intrattenimento.
Poi, se dopo aver scartato questa ipotesi, decidiamo di proseguire con la lettura, occorre anche evitare di affidarsi subito a delle interpretazioni troppo semplicistiche, di quelle che, in modo simile a quanto avviene con i cosiddetti “luoghi comuni”, ostacolano ogni approfondimento ed ogni effettiva comprensione dei fatti.
Pensiamo ad esempio a quelle letture che riducono la trama ad un confronto fra buoni e cattivi in cui alla fine “vincono sempre i buoni”, anche se qualcuno poi si fa male, ed alle conseguenze che interpretazioni di questo tipo portano con sé.
Fra di esse sappiamo esserci infatti anche quella di considerare l’opera nel suo insieme alla stregua di una storiella moraleggiante ed anche un po’ superata, visto che l’attualità della produzione artistica oggi tende a considerare sempre più “l’assenza di etica” (cioè ad esempio il non far vincere nessuno, oppure il far vincere direttamente i cattivi) come garanzia di modernità.
Occorre quindi, anche per cercare di spiegarci il clamoroso successo che questo romanzo ha ottenuto e continua ad ottenere, cercare di liberarsi allo stesso modo di ogni altro pregiudizio, ed aprirsi all’idea che i modi in cui le opere d’arte possono essere trasmesse e comprese sono in larga parte misteriosi, e che quasi mai questa comprensione può avvenire sulla base del solo pensiero, per quanto approfondito questo possa essere, ma sempre percorrendo altre strade, che passano attraverso le regioni del sentimento e che giungono diritte al cuore, proprio così come avviene anche in questo caso.
Cominciamo allora col dire che è pur vero che il “repertorio” usato da Tolkien per raccontare la sua storia, ambientata in un mondo immaginario (la Terra di Mezzo) e popolata di personaggi fantastici e tra loro diversissimi, comprenda romanzi cavallereschi di origine medievale, saghe nordiche, fiabe e mitologia, e che il suo linguaggio sia costellato di simboli e figure archetipiche (pensiamo ad esempio all’anello del “Canto dei Nibelunghi”, ripreso poi anche da Wagner nella sua opera omonima), ma è anche vero, come spiega Elémire Zolla nella sua bella introduzione al romanzo, come Tolkien, con questi strumenti, ci abbia parlato di in realtà “di un mondo perenne oltre che arcaico, dunque più presente a noi del presente”. (1)
Va inoltre considerato che Tolkien era un filologo, uno studioso di letteratura medievale, e che come tale, per comporre la sua opera, abbia usato direttamente i suoi propri mezzi, cioè tutti quegli gli strumenti linguistici e culturali di cui disponeva.
Egli ha usato, in sostanza, il proprio talento, per raccontarci una storia in cui non ha tralasciato di depositare diversi significati, con l’intenzione di renderli disponibili a chi fosse stato in grado di raccoglierli. Ed è riuscito a farlo, accostandosi in questo modo ai più grandi di sempre. Pensiamo ad Omero, a Dante, a Shakespeare, solo per citare i più importanti fra coloro che, come lui, si sono preoccupati di donare, con la loro opera, qualcosa di duraturo, che potesse aiutare gli uomini a conoscere di più, e ad amare, la loro stessa vita.
Le fiabe, spiegava Tolkien, hanno tre volti: “quello che guarda al soprannaturale, quello magico indirizzato alla natura, e infine lo specchio di scorno e pietà che offrono all’uomo” (2). Così, in modo analogo, egli ha inteso raccontarci una favola che ci dicesse di come siamo fatti: del nostro aspetto “materiale”, legato alle necessità fisiche, del mondo dei nostri sentimenti, in cui in effetti viviamo, e della nostra origine, cioè di quel mondo spirituale che è sempre presente seppur non visibile ai sensi fisici.
E così, anche la storia dell’Anello può diventare per noi una storia dell’Anima, della nostra anima e del suo percorso di crescita, messo anche qui alla prova dall’intervento di forze oscure che quella crescita intendono, costantemente ed a volte con violenza, ostacolare.
Allora possiamo provare a riconoscere, nelle vicende della Terra di Mezzo, quello che in realtà accade all’anima umana, ad un certo punto della sua lunga storia, così come di questa ci raccontano gli “antichi libri” custoditi e trasmessi di generazione in generazione.
E di come ad un certo punto, approfittando di un periodo di decadimento dei popoli che in essa vivevano, un certo potere avesse deciso di giocare le proprie carte, cercando con i mezzi a sua disposizione di sottometterla.
I vari popoli che abitavano quella regione ci ricordano infatti le varie “componenti” dell’anima umana, le varie sue parti dotate delle loro specifiche caratteristiche e dei propri ruoli, che concorrono a sostenerla ed a farla “vivere”.
Riconosciamo allora negli Elfi, coloro che un tempo “reggevano” direttamente un territorio che era ancora agli inizi della sua storia, la parte spirituale da cui tutto ebbe origine, che ha però in quella fase cominciato a ritirarsi, offrendo soltanto un aiuto esterno a ciò che gli altri popoli stavano formando.
Troviamo nei Nani quelle forze originarie legate alla natura ed alla terra, in grado di offrire anch’esse il loro sostegno a difesa dell’integrità di quell’anima, nel momento in cui essa veniva così fortemente attaccata.
Vediamo poi negli Uomini, che incarnano la materialità allora presente nell’anima umana, gli effetti di quelle debolezze che derivano da un’antica condizione animale, in cui si vedono prevalere le forze dell’istinto su quelle della ragione e dei sentimenti buoni (significativa a questo proposito la “caduta” ed il conseguente “sacrificio” di Boromir), che ancora faticano ad affermarsi.
Ed abbiamo infine gli Hobbit, che pur avendo qualcosa in comune con gli uomini, ne rappresentano la parte migliore (sono più piccoli e vengono appunto definiti mezzi-uomini), essendo vissuti in un’area appartata e protetta della Terra di Mezzo (la Contea) in cui hanno potuto far crescere, alimentandoli in vario modo, proprio quei buoni sentimenti che altrove erano tenuti in subordine da conflitti e tensioni territoriali.
E saranno come vedremo proprio queste qualità a far sì che il contributo degli Hobbit diventi decisivo per le sorti della Terra di Mezzo, rendendoli adatti al delicato ruolo di “portatori dell’anello”, nel quale si sarebbero avvicendati in tempi diversi prima Bilbo e poi Frodo (oltre a Sam per una breve parentesi), fino al termine del percorso.
Seguendo questa modalità di lettura, la nascita e la formazione della Compagnia dell’Anello rappresenta quindi il tentativo dell’anima umana di riorganizzarsi e di “compattarsi” di fronte all’attacco esterno portato dall’oscurità. Attacco che però avviene anche su un secondo fronte, rappresentato proprio dall’Anello, che esercita contemporaneamente dall’interno la propria incombente minaccia.
L’Anello del Potere, l’anello di Sauron, può in effetti essere ricondotto simbolicamente a molti significati. Esso tuttavia ci sembra rappresentare in queste circostanze fondamentalmente il vincolo, la dipendenza e soggezione permanente cui viene sottoposto colui che ad esso si affida, indotto in questo dal proprio egoismo già presente, ed in aspettativa di un potere che non tarda a rivelarsi illusorio.
Il potere stesso dell’Anello trae in realtà la propria forza proprio dalla debolezza di chi ad esso si sottopone, attratto ed ingannato dai vantaggi materiali che esso mostra di offrire. Quell’anello era infatti l’unico in grado, diversamente da tutti gli altri, di domare, trovare, ghermire e nel buio incatenare coloro che ad esso sceglievano di affidarsi, così come Tolkien ci indica in apertura della trilogia.
Ecco quindi spiegato perché gli Hobbit, dotati di un loro particolare equilibrio e del tutto disinteressati al potere, sono stati gli unici in grado di “portarlo” fino al compimento della propria missione. Una missione che prevedeva la distruzione dell’anello (e quindi l’annullamento della sua minaccia) e che poteva essere realizzata soltanto nel luogo in cui esso era stato forgiato, cioè nel cuore stesso dell’oscurità, rappresentata dal regno di Mordor.
Non è a questo punto difficile cogliere il significato simbolico del rocambolesco cammino di Frodo e Sam, con Gollum che da nemico si trasforma in guida esperta, alla scoperta del regno dell’Oscuro Signore, rappresentandoci l’immagine di come, soltanto se si riesce a conoscere a fondo il male, risalendo alla sua vera origine, diventa possibile, dopo averlo smascherato, trasformare la sofferenza che da questo deriva in opportunità di bene.
La figura di Gandalf, anch’essa centrale nella vicenda, è invece quella che rappresenta la guida iniziatica, simile a quel Mago Merlino che siamo abituati a conoscere e che egli ricorda anche nell’aspetto.
Gandalf ha partecipato alla formazione della “Compagnia”, assistendo al compimento del percorso nelle sue vicissitudini, pur affrontando egli stesso, allo stesso modo degli “iniziati”, un suo percorso parallelo. Egli è divenuto infatti “bianco”, da “grigio” che era, superando una certa prova, che lui si era trovato ad affrontare nell’interesse degli altri, non del proprio, e che gli ha permesso di ritornare poi, con strumenti (spirituali) più forti, ad offrire nuovamente il proprio contributo.
Ma la storia della Terra di Mezzo, che ci ricorda quella della nostra nostra anima, non si può separare dal destino di Gondor, il regno di cui Minas Tirith è capitale, e che minacciata di distruzione dalle forze oscure attendeva il ritorno di un nuovo Re.
Attendeva quell’essere in grado di raccogliere l’eredità degli antichi re-sacerdoti, in grado di sanare le ferite del proprio popolo, sotto alle insegne di una nuova alleanza risanatrice che sarebbe dovuta sorgere tra tutti gli abitanti della regione.
Questo Re designato, che alla fine della trilogia avrà portato anch’egli a compimento la propria missione, rappresenta lo Spirito. Quello spirito che aveva iniziato a lavorare, fin dal principio, alla riorganizzazione delle forze dell’anima, per preparare le condizioni in cui il proprio regno divenisse pronto alla sua venuta. Che divenisse cioè in grado di accoglierlo e di riconoscerlo nel suo ruolo. Cosa che soltanto alla fine, dopo una serie di innumerevoli passaggi e difficoltà, si è potuta realizzare.
Sono molte le circostanze, le descrizioni, le corrispondenze che si incontrano nel corso di questa lunga narrazione, che Tolkien ci ha regalato, ad attirare la nostra attenzione, e che meriterebbero un adeguato approfondimento. Lo meriterebbero proprio per poter riconoscere in esse l’effettivo spessore attraverso cui cogliere l’ampiezza dei riferimenti utilizzati, ed assegnare a tutta l’opera il giusto riconoscimento della qualità e della capacità artistica che in essa sono state profuse.
Ci limitiamo tuttavia ad aggiungere qualche dettaglio in più sulla figura di Aragorn, approfittando anche di quanto contenuto in appendice al testo e riportando alcuni passaggi molto belli riguardanti la storia di Aragorn e Arwen.
Incontriamo Aragorn all’inizio della trilogia, quando ancora sotto le spoglie del ramingo Granpasso vagabonda per la Terra di Mezzo, con fare solitario e misterioso.
Ed egli probabilmente sarebbe rimasto tale ancora a lungo se l’emergenza creata dal Potere Oscuro non gli avesse offerto la possibilità di riscattare le sorti di quel paese per governare il quale era stato designato dal destino.
Aragorn aveva qualcosa in comune con gli Elfi, e cioè una natura divina, in lui ancora parzialmente nascosta, derivante dalla sua stessa stirpe, ma che nel tempo era stata dimenticata a causa del generale decadimento delle condizioni del paese di cui il regno di Gondor era guida. E fu infatti un Elfo, Elrond, Signore di Granburrone, a comunicargli, ammonendolo, quale fosse il suo vero compito, e quali i rischi che il portarlo a termine inevitabilmente comportava:
“Aragorn, figlio di Arathorn, Sire dei Dúnedain, ascoltami! Un grande destino ti attende, sia quello di ergerti al di sopra di tutti i tuoi avi succeduti a Elendil, sia quello di cadere nell’oscurità con tutti i superstiti della tua stirpe. Molti anni di travagli e sofferenze ti attendono. Non avrai moglie e non legherai a te in promessa alcuna donna prima che giunga la tua ora e che tu ti sia dimostrato degno di essa”.
Ma Aragorn nel frattempo aveva conosciuto Arwen, la figlia di Elrond, ed aveva già deciso di legare a lei il suo cuore:
“…vide la luce elfica sfavillare nei suoi occhi insieme con la saggezza di molti anni; e da quel momento amò Arwen Undómiel figlia di Elrond.”
Ed anche qui, nella traccia antica dei racconti cavallereschi, riconosciamo il Principe, lo Spirito che si appresta a diventare Re e guida dell’essere umano, che si lega ad una fanciulla, pura e di origine divina, riconoscendo in lei quella Coscienza elevata, colma di sapienza e capace di compassione, ed offrendosi di servirla, ben sapendo che da lei sarebbe dipesa la realizzazione dei propri ideali elevati:
“Quando Aragorn fu lontano, ella lo protesse con il pensiero; e nell’attesa piena di speranza gli preparò un grande vessillo regale, degno di colui che avrebbe preteso l’eredità di Elendil e la corona dei Numenoreani.”
Le vicende della “Guerra dell’Anello” intervengono a questo punto della storia d’amore tra Aragorn ed Arwen, che, come spesso accade, ci trasmette, per mezzo dei sentimenti, una verità più profonda.
Essa ci fa giungere un messaggio che, in qualche modo, risuona in noi. E che se decidiamo di conservare ci permette di riconoscere, anche nell’apparente normalità della nostra vita quotidiana, qualcosa di straordinario e fuori dal tempo, proprio per averci parlato, grazie a immagini, simboli e suggestioni, delle origini, della storia e dei destini dell’uomo:
“Accadde che al momento in cui Gondor stava per essere sconfitto Aragorn giunse dal mare spiegando il vessillo di Arwen nella battaglia dei Campi del Pelennor, e fu per la prima volta acclamato re. E finalmente quando tutto fu finito, egli entrò in possesso dell’eredità dei padri e ricevette la corona di Gondor e lo scettro di Arnor; l’anno della Caduta di Sauron, a Mezza Estate, egli prese la mano di Arwen Undómiel, ed essi furono sposi nella città dei Re.”
NOTE:
1) J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”, ed. it a cura di Quirino Principe, Bompiani, Milano, 2000.
2) J.R.R. Tolkien, ibid. p. 6.
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