“E quegli, che il proprio nome non sapeva,
subito lo conobbe e disse che era Perceval il Gallese”
Quando Parsifal si presenta alla corte di re Artù per farsi nominare cavaliere ha l’aspetto di un giovane e spavaldo gallese e non conosce ancora il proprio vero nome.
A chi glielo aveva chiesto aveva risposto di chiamarsi “figlio caro”, “caro fratello”, “caro signore”, dimostrando di ignorare ancora quell’identità che gli si rivelerà sul campo, nel corso delle sue avventurose vicende.
Da principio egli sceglie di indossare un’armatura altrui, quella del cavaliere “rosso”, cui la sottrae con la forza, assumendo così un aspetto esteriore che pur non appartenendogli egli considera adeguato al ruolo che, sia pure ancora molto confusamente, egli desidera impersonare (1).
Parsifal è un impulsivo giovane uomo d’azione, animato da una spinta interiore di cui non ha coscienza, che lo porterà a compiere le esperienze più diverse, ed anche a subire, vivendole, le conseguenze dei propri errori.
Armato di tutto punto, ma pressoché ignaro dell’uso delle armi, si allontana dal castello di Artù sinché incontra un cavaliere che si dichiara disposto ad aiutarlo.
« Caro amico » gli spiega a quel punto il maestro che si incarica di insegnargli la tecnica del combattimento, « si può sempre imparare ciò che si vuole, purché si dia ascolto e ci si affatichi. Ogni mestiere esige coraggio, pena ed esperienza. Sono queste le tre cose con cui si può imparare ».
Ed in effetti di cose da imparare Parsifal ne ha davvero molte, a partire dal modo di montare a cavallo, che lui aveva appreso quando usava andare a caccia nei boschi al tempo in cui viveva con la madre.
Ma questa sua capacità istintiva di cavalcare, sviluppata per conto proprio in autonomia e solitudine, ora pare che non gli sia più sufficiente.
Servono altre competenze, anche perché a ciascun componente dell’attrezzatura in dotazione al cavaliere corrisponde direttamente una precisa attività dell’anima cui è effettivamente diretto l’insegnamento, da intendersi, a ben vedere, come pratica di autoeducazione.
Il cavallo, che rappresenta il pensiero, va certamente sollecitato, spinto in avanti, ma anche tenuto a freno, e portato in modo da poter essere messo al servizio delle armi di cui il cavaliere dispone. Occorre quindi essere capaci di controllarlo per poterlo volgere, opportunamente, in direzione del bene.
Lo scudo, che il cavaliere impugna tenendolo appeso al collo, è l’immagine della conoscenza di ciò che è visibile e di quello che non lo è. Esso rappresenta la Sophia che lo accompagna e lo mette in grado di proteggersi dagli assalti della menzogne e dei condizionamenti, usati per distogliere il suo operato dai veri obbiettivi che egli persegue.
Usando la lancia, tenuta appoggiata all’arcione in posizione orizzontale, il cavaliere affronta il suo avversario in campo aperto, sfidandolo per difendere l’onore della dama (la propria anima) cui ha promesso il suo cuore, il suo impegno e la sua devozione incondizionata.
L’avversario da colpire può essere esteriore oppure interiore, ed anche avere sembianze del drago, che appunto tiene prigioniera la fanciulla-anima, in costante pericolo ed in attesa di essere liberata.
Quando però la lancia è tenuta sollevata verso il Cielo essa funge da collegamento con i mondi spirituali. Così come avviene per il bastone del mago, da arma con cui combattere la lancia può trasformarsi in ponte tra le dimensioni e servire a tenere il contatto tra il cavaliere e le sue guide spirituali, cui sempre di più egli deve affidarsi per portare a termine il difficile compito dell’esperienza terrena.
« Se avete cuore conoscerete ciò che bisogna sapere » dice ancora l’istruttore a Parsifal, che è sempre più desideroso di portare a termine il proprio apprendimento, per poi aggiungere: « Amico, cosa fareste se vi imbatteste in un nemico che vi colpisse ? »
« Lo colpirei anch’io » ribatte Parsifal.
« E se la vostra lancia si spezzasse ? »
« Gli darei addosso e colpirei coi pugni, che altro fare ? »
« Amico, non è ciò che bisogna », replica infine l’istruttore, poiché in quel caso « si deve ricorrere alla spada ».
La spada, l’arma forse più caratteristica tra quelle usate dai cavalieri, è, nel repertorio archetipico dell’arte sacra, la spada del discrimine.
Essa è in effetti lo strumento con cui si diventa capaci di distinguere il bene dal male, ed è anche l’unica arma efficace per affrontare il proprio lato oscuro, l’altro da sé con cui siamo condannati a coesistere fino al termine dell’esperienza terrena.
È con la spada in pugno che Parsifal, primo cavaliere del Graal, affronterà i duelli che lo attendono fino alla fine (2).
Ed osservando le regole dell’Ordine della Cavalleria, l’ordine “più alto che Dio abbia creato al mondo” e che non ammette bassezze, sarà capace, di fronte ad un avversario battuto e non più in grado di resistere né di difendersi, di risparmiarlo ed averne misericordia.
NOTE :
1) Il « Perceval o il racconto del Graal » è un romanzo cortese, scritto da Chrétien de Troyes nel XII secolo.
Con esso il mito del Graal entra per la prima volta nella letteratura francese consolidando in termini letterari ciò che la tradizione orale aveva contribuito a diffondere in precedenza a proposito di una vicenda, la saga del Graal, realmente accaduta alcuni secoli prima.
2) Fu attorno alla leggendaria coppa del Graal, la grande reliquia cristica portata in Europa da Giuseppe di Arimatea, che si raccolse nel IX secolo un gruppo di cavalieri il cui compito era quello di diffondere l’amore e liberare le anime prigioniere dei draghi generati dalla dissoluzione dell’Impero romano e dal suo spettro che, dopo le devastazioni prodotte nei secoli precedenti, ancora, come adesso, sopravviveva.