Seguendo il percorso tradizionale tracciato dalla storia dell’arte, Leonardo da Vinci viene visto comparire come figura di spicco, fra le maggiori, appartenenti allo scenario della pittura quattrocentesca in Italia.
Come tale, da uomo del suo tempo, egli è considerato maestro nell’arte della rappresentazione prospettica, ed il suo Cenacolo viene, giustamente, indicato come uno degli esempi più alti dell’applicazione di questa tecnica alla pittura.
La letteratura di settore è ricca di analisi, anche approfondite, che vanno nella direzione di evidenziare la capacità di controllo di tale strumento mostrata da Leonardo in questa sua celebre opera.
Si è scritto dell’attenta distribuzione delle figure degli apostoli e della posizione centrale del Cristo, atta a bilanciare e a dare ordine all’intera composizione.
Si è detto dell’effetto spaziale ottenuto ordinando le linee prospettiche, tale da generare una sensazione di profondità nella parete affrescata del refettorio, come se l’ambiente fosse notevolmente più ampio rispetto a com’è in realtà.
Si è fatto notare come la luminosità del dipinto fosse in accordo con l’effettiva posizione delle finestre esistenti ed arricchita dal chiarore del fondale, tale da creare una specie di aura naturale attorno alla figura del Cristo.
Ed altre cose ancora sono state aggiunte, o portebbero esserlo, seguendo questa direzione di approfondimento che ha un suo livello di indiscutibile interesse per la disciplina artistica così come essa viene correntemente intesa.
Va detto però, che questo tipo di interpretazione, appunto disciplinare, risulta, per definizione, tutta interna alla “disciplina”, e potrebbe ragionevolmente interessare poco o punto i non addetti ai lavori, che hanno, non per colpa loro, poca dimestichezza con l’arte pittorica.
Non è certamente in discussione qui la grandezza di Leonardo come pittore, che può essere colta in modi diversi, guardando le sue opere, anche da chi non si occupa di pittura.
Pare tuttavia necessario ampliare il quadro cui si riferisce l’interpretazione corrente, per evitare di restare prigionieri di una modalità conoscitiva che risulta essere figlia di una cultura settoriale ed ambiguamente fautrice di una particolare forma di separazione dei saperi.
Questa tendenza verso la specializzazione in campo culturale ha portato, in tempi recenti ed anche in ambito artistico, tanta parte della critica a dare più importanza alle modalità di interpretazione ed esecuzione di un’opera piuttosto che occuparsi a fondo dei temi in essa trattati, come se, per gli artisti, scegliere un argomento da rappresentare o un altro fosse più o meno la stessa cosa, ovvero semplicemente un pretesto per esprimere figurativamente il proprio talento.
Ci sembra opportuno allora fare un passo indietro (o meglio in avanti), provando a guardare il Cenacolo innanzitutto per ciò che è, ossia innanzitutto come una rappresentazione di arte sacra, fra le più alte che si conoscano.
Il tema qui trattato è descritto in diversi passaggi scritturali, e riguarda l’annuncio dato dal Cristo ai discepoli, dell’imminente tradimento di Giuda Iscariota ai suoi danni. Giuda, infatti, si era già accordato con i capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù, in cambio di trenta denari d’argento.
Vi è quindi un primo livello interpretativo di cui tener conto, direttamente riferito al passo descritto nelle Scritture, laddove queste trattano di un episodio della vita di Gesù e dell’opera del Cristo in terra.
Occorre però considerare, occupandosi in generale delle Scritture, che queste non si limitano a “raccontare” le vicende che occorsero a Gesù nella Palestina di duemila anni fa, così come comunemente si pensa.
Vi sono infatti anche degli altri livelli interpretativi più profondi che ci indicano come in esse vengano presentati e descritti, per “immagini”, i più grandi misteri del mondo e dell’umanità nel loro insieme.
Le scritture, al contrario di quanto purtroppo accade oggi, vanno studiate seriamente, senza secondi fini, poichè contengono chiari messaggi volti a spiegare agli uomini il senso della loro presenza in terra ed il proprio compito nel complesso processo evolutivo predisposto dalla Coscienza Universale.
Usando i giusti strumenti ed una fondata visione spirituale si possono trovare in esse rappresentazioni di vicende particolari che sono però anche in grado di assumere valore archetipico.
Che possono cioè riaccendere nell’anima degli uomini il ricordo di episodi della loro storia cosmica, oggi riposti nell’interiorità più profonda e celati al ricordo ed alla loro personale rielaborazione.
La storia della crescita spirituale dell’uomo risale a tempi remotissimi, nei quali le grandi qualità divine emersero, volta per volta, dall’immobilità del nulla cosmico, per andare a formare l’essenza dei nuovi esseri che avrebbero costituito l’umanita cui apparteniamo, e che è tuttora in evoluzione. (1)
Alla volontà iniziale, espressa nelle azioni compiute dalle più alte spiritualità angeliche nell’atto della creazione, si aggiunsero allora altre qualità divine, necessarie alla formazione e allo sviluppo degli innumerevoli percorsi di crescita di cui l’umanità delle origini, compatibilmente con il livello di coscienza raggiunto, ebbe esperienza.
Una di queste è quella che può essere descritta dal concetto di rinuncia creativa.
Per comprendere il significato qualitativo più proprio della “rinuncia creativa”, occorre riferirsi al fatto che ciò che pare essere importante sul piano fisico, e cioè nel corso dell’incarnazione terrestre dell’uomo, di solito non lo è altrettanto sul piano spirituale.
Avviene infatti che: laddove qualcosa, per essere compiuto sul piano fisico, sembra richiedere un sempre maggiore sforzo volitivo, cioè un’azione compiuta con maggiore intensità, quando si è sul piano spirituale, le azioni più significative comportano, come necessaria, una rinuncia ad operare.
Detto in altre parole, ed esemplificando, si può infatti dire che, su un piano spirituale, i maggiori risultati si ottengono ponendo un freno alle spinte che giungono dalle regioni inferiori dell’anima, che sono governate dall’egoismo, e non assecondando desideri e brame rinunciando piuttosto a soddisfarli, lasciando così campo libero all’affermarsi della Volontà del Cielo.
L’episodio biblico del “sacrificio di Isacco” descrive appunto la rinuncia del Dio-Creatore al sacrificio che Abramo si accingeva a compiere, e che avrebbe condotto all’uccisione del figlio.
Dio rinuncia qui ad avere Isacco con sé nei mondi spirituali, per rendere possibile la continuazione della stirpe ebraica, del processo evolutivo in corso sulla terra ed, infine, del concretizzarsi del progetto divino.
Cosa vediamo accadere dunque, tornando all’oggetto del nostro studio, nella scena rappresentata da Leonardo nel Cenacolo, se proviamo a guardarla cercando di riconoscerne il senso più profondo?
Volendo leggere l’episodio limitandosi ad applicare una logica terrena ci si troverebbe di fronte a qualcosa di paradossale: il Cristo, pur essendo consapevole del tradimento in corso ad opera di Giuda, non fa nulla per evitarne le conseguenze.
Egli spiegherà, in un passo successivo ai discepoli che volevano sottrarlo all’arresto, come la sua rinuncia a difendersi fosse un gesto voluto, necessario al fatto che si compissero le Scritture, “secondo le quali così deve avvenire”. (2)
La rinuncia del Dio deve dunque compiersi, e sarà una rinuncia tale da comportare l’estremo sacrificio, culminato in seguito con l’evento del Golgota.
Leonardo ci parla dunque nel suo dipinto di una qualità divina, la rinuncia, illustrandocela nel suo farsi, in una scena carica di tensione ma anche, e soprattutto, di una superiore fermezza.
Questo non-agire cristico, di fronte alla possibilità di sottrarsi all’imminente supplizio, ha qualcosa di sovra-umano, che davvero Leonardo esprime magistralmente nell’equilibrio sospeso dell’azione trattenuta.
In realtà, guardando la vicenda nel suo complesso, la rinuncia del Cristo ha origine ancor prima di ciò che avviene nel corso della Cena, ed ha a che fare con l’accoglimento di Giuda nella cerchia dei discepoli.
Accogliere Giuda, al punto di averlo poi tra i commensali della celebrazione pasquale, significa rappresentare archetipicamente l’accoglimento del male nel progetto divino, significa rappresentare la necessità dell’errore di fronte al compimento del grande disegno evolutivo che deve avere il suo corso.
Ma vi è anche un altro aspetto, connesso con le qualità divine della rinuncia, che emerge in questa grandiosa rappresentazione, e che si esprime nella sensazione di sospensione temporale che da essa promana.
La rinuncia del Cristo ha qui il carattere del sottrarsi al corso del divenire storico, che invece è ben rappresentato dal declinarsi dei differenti caratteri dei dodici, i quali appaiono soggetti con evidenza all’azione delle più varie influenze astrali.
Il tempo cristico si presenta qui come un tempo cosmico, che echeggia la posizione assunta dalle superiori potenze celesti all’atto della Creazione, e che pone al centro l’immortalità dello Spirito rispetto al divenire caotico della materia.
“Quando in mezzo ai suoi apostoli ci appare il Cristo, che sulla Terra è il vincitore della morte, il Cristo che sulla Terra supera la morte e ci mostra il trionfo dell’immortalità, veniamo rimandati al significativo momento universale in cui gli dèi si separarono dallo stato temporale dell’esistenza, riportando vittoria sull’esistenza temporale, e conseguirono lo stato dell’immortalità.”(3)
Tutto questo rappresenta in effetti Leonardo, trasmettendocelo “da cuore a cuore” così come solo i massimi artisti sanno fare.
Ed occorre dire qui che gli strumenti pittorici e compositivi che egli padroneggia e di cui scrive la critica convenzionale, acquistano un valore particolare proprio perché messi al servizio di un messaggio di qualità più alta. Non un messaggio effimero, ma dotato di una sua necessità, connessa con le esigenze evolutive di una umanità a venire che si ponga in ascolto.
Non sappiamo oggi se Leonardo fosse consapevole delle dinamiche connesse con la creazione del cosmo e dei compiti assunti all’origine dalle diverse potenze angeliche, o se in lui vivessero semplicemente particolari forze in grado di connetterlo, senza piena coscienza, con le massime verità del mondo.
Quello che sappiamo è che certamente in lui si compì questa mirabile congiunzione tra capacità espressive elevatissime e profondità di contenuti, che costituisce il tratto più importante e meritevole di attenzione della sua opera.
Certamente l’arte del passato, e quella di Leonardo in particolare, ci mostrano come fosse essenziale connettersi, nelle opere, con i grandi temi dell’esistenza umana, e ci inducono, con la loro bellezza, a riportare al centro tali argomenti nello studio e, auspicabilmente, nell’esercizio della critica d’arte, che invece si fa vanto di aver preso, soprattutto nell’ultimo secolo, tutt’altra direzione.
NOTE:
1) Vedi soprattutto: Rudolf Steiner, “L’evoluzione secondo verità”, Editrice Antroposofica, Milano, 2004.
2) “O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” – Matteo 26, 53.
Si possono dire tante cose sui comportamenti e le iniziative prese dai personaggi noti al grande pubblico in campo culturale, e, sicuramente, anche le critiche a loro rivolte non possono e non debbono mancare perché il significato e l’interesse di tali iniziative appaiano nella loro interezza.
Tuttavia, di ciò che sta facendo l’ormai ottantaduenne Riccardo Muti non possiamo che parlar bene, vista soprattutto la situazione di degrado in cui versa la cultura, ed in particolare la musica, nel nostro tribolato paese, e non solo in quello.
Al termine di una prestigiosa carriera da direttore d’orchestra, Muti si occupa, da diversi anni, di promuovere l’educazione musicale dei giovani attraverso una serie di importanti iniziative.
Nel 2004 ha fondato l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, e nel 2015 l’Accademia dell’Opera Italiana di cui lo stesso Muti dice esser stata creata “per insegnare ai giovani musicisti ciò che ha imparato dai suoi grandi maestri, lungo una linea ideale che lo collega a Giuseppe Verdi, attraverso Arturo Toscanini e al proprio Maestro Antonino Votto.” (1)
Il lavoro svolto da Muti con l’Accademia ha dunque l’obbiettivo di formare i giovani direttori d’orchestra, e con loro i “maestri collaboratori al pianoforte”, trasmettendo loro le proprie conoscenze ed importanti esperienze relative al patrimonio operistico italiano.
L’attività dell’accademia si concretizza in incontri periodici annuali durante i quali l’opera che è stata selezionata viene poi studiata in sala con orchestra, cantanti e coro, a stretto contatto con il maestro, che cerca di mostrare e trasmettere loro l’arte della “costruzione musicale”.
Uno di questi incontri ha avuto luogo una settimana fa, in forma di “lezione-concerto”, presso la Fondazione Prada a Milano con la presentazione al pubblico di “Norma” di Vincenzo Bellini.
Muti, nell’introdurre l’opera, ha anche parlato in generale della condizione della musica operistica in Italia e nel mondo, sottolineando il fatto che certe consuetudini, che costituivano in passato una parte integrante del processo di preparazione e rappresentazione, sono state quasi del tutto dismesse dagli operatori del settore, determinando, nei fatti, un generale decadimento della qualità della produzione artistica.
Va anche detto che la preoccupazione espressa da Muti a questo proposito, ed in generale riguardo allo stato dell’arte e della cultura in Italia e nel mondo, non è cosa nuova, e che sono frequenti i suoi interventi a sostegno ed a difesa del nostro patrimonio culturale in campo musicale.
In questa occasione Muti è entrato però maggiormente nel dettaglio del problema della rappresentazione operistica, sottolineando che tra i compiti del direttore d’orchestra vi era tradizionalmente quello della concertazione, ovverosia della vera e propria “costruzione musicale” dell’opera.
Con la concertazione il lavoro compiuto dal direttore era, detto molto in generale, quello di cercare di ricomporre gli equilibri tra le parti di orchestra, coro e cantanti, e di individuare e promuovere i caratteri di ciascuna parte, coerentemente con la partitura, secondo le intenzioni originarie dell’autore.
La figura del maestro-concertatore, spiegava Muti, che coincideva con quella di direttore, è andata via via scomparendo in tempi recenti, lasciando spazio a direttori d’orchestra che, viceversa, tendono ora ad occuparsi esclusivamente di condurre a tempo i musicisti senza più occuparsi della concertazione.
La mancanza di questa rilettura consapevole delle partiture e dei libretti, accompagnata da una conoscenza approfondita degli autori e delle loro caratteristiche fondamentali, aggiunge ancora Muti, è causa, comprensibilmente, di un generale decadimento interpretativo dell’opera rappresentata, e penalizza gravemente gran parte della musica operistica italiana, colpendola particolarmente nelle sue specificità.
Nel caso della produzione Belliniana, che per molti rappresenta il “Belcanto” italiano per antonomasia, la mancanza di un suo studio e di una sua conoscenza approfonditi impedisce di poterla interpretare e restituire nella sua vera grandezza.
“Norma” presenta, ci ricorda Muti, una parte orchestrale apparentemente “semplice”, differente ad esempio dalle grandi tessiture wagneriane in cui i testi delle arie ed i recitativi sembrano immergersi, che la fa erroneamente riconoscere come musica d’accompagnamento.
In realtà l’orchestra serviva a Bellini per sostenere, con grande attenzione al fraseggio, la bellezza, la potenza e l’intensità del canto, dopo che, attraverso la sua arte egli era riuscito a sollevare la parola, maestosamente, al livello della musica.
Muti accenna quindi allo scarso impegno “vero” dei nuovi direttori, che gli paiono maggiormente interessati alla gestione della propria immmagine visibile, piuttosto che alla qualità di ciò che si propongono di rappresentare. Ed accenna anche al ruolo ambiguo assunto dai registi, i quali intendono introdurre sempre più elementi arbitrari ed estranei a ciò che riguarda la rappresentazione e rispetto alle necessità della musica per come essa era stata concepita dai compositori (2).
Il contributo culturale dato da Riccardo Muti, che ci pare quantomai opportuno anche se tacciato di tradizionalismo da parte di tanta critica ahimè “qualificata”, tende quindi a rimettere la musica al centro dell’arte operistica, liberandola da tutte quelle ambiguë diversioni determinate da una malintesa pretesa di modernità e da un desiderio di protagonismo del tutto fuori luogo.
L’opera italiana si trova, dice spesso Muti, ad un livello di qualità non certo inferiore rispetto alla musica d’oltralpe, ma va suonata e rappresentata con l’accuratezza e la profondità con cui era stata concepita.
Le difficoltà che presenta la messa in scena di Norma sta appunto nel riconoscere le sue particolarità, la drammaticità dei ruoli che richiedono voci adeguate e l’altissimo lirismo delle sue melodie, e nel rappresentarle come tali.
E soltanto dopo uno studio approfondito che, a partire dal lavoro del direttore coinvolga il lavoro dell’orchestra, dei cantanti e del coro, è possibile aspettarsi, riteniamo noi, un risveglio del pubblico alle vere qualità della grande arte musicale italiana.
“Il compito del direttore d’orchestra, dice Muti in chiusura, è quello di sublimare il canto senza tralasciare il tessuto orchestrale. Esso non deve essere ricondotto a semplice accompagnamento, ma deve intersecarsi con le voci, a cui dare colore e calore”(3).
NOTE :
1) Dalla documentazione fornita al pubblico in occasione dell’evento.
2) “Nelle pause, dice Muti, di cui hanno timore, aggiungerebbero volentieri una motocicletta che passa…”
Pare che nel XIII secolo, in una cappella costruita nei pressi di Suna, nell’attuale comune di Verbania, fosse custodita una Madonna del Latte, che attirava molti pellegrini.
Oggi, al posto di quella cappella, sorge una chiesa cinquecentesca detta Madonna di Campagna, in cui è ancora possibile ammirare una Madonna del Latte sopra ad un altare laterale, circondata da dipinti e decorazioni più recenti.
Si tratta di un’opera poco nota, ma certamente di grande bellezza, tale da risaltare decisamente rispetto al restante complesso decorativo più tardo presente nella chiesa.
Anche la sua fattura si presenta di grande pregio, a partire dalle preziose campiture in oro con cui sono decorate la corona e l’aureola della Vergine, come pure l’aureola e gli abiti del Bambino.
Riguardo al tema affrontato nel dipinto, quello della madre che allatta il figlio, si può dire che, seppure questo sia abbastanza ricorrente nell’iconografia medievale, di esso non viene correntemente data un’interpretazione completa, limitandosi a considerarlo una rappresentazione più o meno realistica dell’accudimento materno.
Se però in questo caso si osserva obbiettivamente il dipinto, si nota come il bimbo sia rappresentato in piedi, in posizione eretta, in grembo alla madre; e come il suo atteggiamento sia volitivo, e si discosti da quello di un lattante, che normalmente partecipa con tutto il suo essere all’atto del nutrirsi.
Qui il Bambino è certamente, il linea con il racconto evangelico, una rappresentazione del Gesù appena nato, ma ci appare anche, e soprattutto, come l’incarnazione di uno Spirito in crescita che manifesta la sua origine divina.
Ha un’aureola dorata su cui si intravede la Croce Rossa, simbolo del Cristo, che ha il senso di preludere al suo percorso terreno di sacrificio e di risurrezione.
I suoi abiti mostrano, per ricercatezza e fattura, la regalità della sua figura.
Egli si pone in relazione con la Madre in modo non passivo, assumendo il suo latte ed afferrando, con la mano sinistra, il lembo del suo mantello.
Maria, per parte sua, ha nell’espressione del viso, serena ed indagatrice, il segno della propria regalità, che si rafforza per la presenza della corona a tre apici, che è a sua volta simbolo dell’ordinamento cosmico trinitario cui ella appartiene.
Maria è madre del Bambino e Regina degli angeli, che sempre la circondano e la servono, così come appare in quella curiosa raffigurazione aggiunta successivamente che fa da contorno al dipinto.
Maria è anche l’immagine cristiana della Sophia, la dea greca della conoscenza.
È colei che detiene la saggezza vera, che trapela dalla serietà del suo sguardo e che è data dalla capacità di vedere simultaneamente la realtà visibile e quella invisibile.
Ed è proprio di questa saggezza che lo spirito nuovo, incarnatosi con tutte le qualità maturatesi in un’altra dimensione, ha bisogno per crescere e portare a compimento l’esperienza terrena.
Tra le due entità divine qui rappresentate, quella maschile e quella femminile, nasce quindi una relazione complessa. Si crea un’interazione ed uno scambio reciproco di qualità.
La saggezza nutre lo spirito. Gli permette di crescere e di muoversi nel mondo.
Se non ci fosse la conoscenza lo spirito non potrebbe svolgere il suo compito. Senza sapere come stanno le cose lo spirito non potrebbe compiere la sua missione : non potrebbe portare il bene nel mondo.
Lo spirito, rappresentato dal Bambino, colma a sua volta la saggezza della sua essenza, infondendo ad essa la più pura voglia di bene.
Va detto a questo proposito, per chiarire quanto qui sostenuto, che nell’iconografia sacra gli abiti, i mantelli ed i tessuti in generale rappresentano i pensieri umani. I pensieri vengono, immaginativamente, tessuti allo stesso modo in cui ciò avviene per la stoffa.
E dunque qui il Bambino stringe il mantello della madre all’altezza del cuore, infondendovi l’amore puro di cui esso è fatto.
La madre sfiora, con la sua mano sinistra, il cuore del fanciullo, quasi a voler accogliere ancora più intensamente l’essenza amorosa di cui il figlio è fatto.
Così l’amore si riversa nei pensieri, nello stesso momento in cui la saggezza cerca nell’amore quella forza che riconosce necessaria al proprio esistere.
– O –
In una chiesa del centro Italia, il Duomo di Massa Marittima (Gr), troviamo esposta una famosa “Maestà” di Duccio di Buoninsegna, datata 1316.
Si tratta di un frammento superstite di un più ampio complesso pittorico, probabilmente un tempo destinato ad essere posto sopra l’altare.
Un complesso che era simile a quello realizzato per il duomo di Siena dallo stesso Duccio qualche anno prima, ma diverso nei particolari.
Osservando qui le due figure centrali si nota, di nuovo con evidenza, il gesto caratteristico del bambino che afferra il lembo del vestito della madre e se lo porta al petto.
La madre, a sua volta, accondiscende all’intenzione del figlio e quasi ne accompagna la mano, guidandola quel tanto che basta.
Maria è anche qui chiaramente la rappresentazione tipica della saggezza cosmica, della Sophia, avvolta nel suo manto, azzurro come il cielo, ed impreziosito dalle stelle ad otto raggi, poste una sulla spalla ed una sul capo.
Maria è allo stesso tempo quell’essere divino che permette allo spirito di incarnarsi e di scendere, ancora bambino, sulla terra. Ella è colei che accoglie e protegge. È l’anima umana riconosciuta nel suo livello più elevato, cui è possibile giungere al termine di lungo cammino di purificazione e crescita.
Lo spirito è il bimbo fatto di pura essenza d’amore.
Egli è colui che permette alla saggezza di “tessere” pensieri amorosi. È il bambino che vive in noi e che ci permette di trasformare la conoscenza in azione operativa volta al bene.
– O –
Anche Duccio affronta dunque il tema dei due aspetti del divino, quello maschile e quello femminile, che si confrontano per definire lo spazio della crescita umana.
Giunto al termine della propria attività artistica (morirà due anni dopo) Duccio è in grado di interpretarlo utilizzando immagini archetipiche e mettendole in relazione tra loro con grande precisione.
Al pari dell’anonimo maestro di Verbania, e di tanti altri a lui affini, egli conosce e sa trasmettere in forma artistica immagini provenienti da una sapienza spirituale profonda, che è tutt’ora in grado di riverberare, con grande efficacia, nelle zone più scure della nostra interiorità.
Anche oggi, grazie a ciò che ci arriva dal passato, ci è quindi possibile veder rappresentata l’indissolubilità di un legame antico. La reciproca dipendenza di due princìpi generatori di vita, la cui polarità sta alla base di qualsiasi processo creativo e di ogni trasformazione positiva.
Così spirito e conoscenza, amore e saggezza, azione e raccoglimento, uomo e donna si ritrovano in noi di fronte, facendoci scorgere la possibilità di un loro rinnovarsi e crescere insieme per conquistare, alla luce di una coscienza più forte, un livello di superiore unità.
Della pittura di Tommaso Cassai, detto Masaccio (1401-1428), s’è già scritto molto, e le sue opere conosciute, meno di una trentina in tutto, sono bastate a farlo riconoscere tra i protagonisti dell’arte del primo rinascimento italiano.
Vale tuttavia la pena di aggiungere ancora qualcosa sulla sua opera che possa aiutare, a partire da uno dei suoi dipinti più conosciuti, a comprenderne l’effettiva grandezza, che va al di là di quanto comunemente ritenuto.
Proveniente da una famiglia di artigiani, il giovane Tommaso studiò inizialmente da notaio su indicazione paterna.
Poco si sa degli anni della sua formazione artistica, come pure della sua prematura scomparsa, avvenuta all’età di soli ventisette anni.
Ciò che di particolare è stato notato da diversi biografi è la totale dedizione da lui dimostrata nei confronti dell’attività artistica, che costituiva il suo unico interesse, e che lo ha condotto a disdegnare “le cose del mondo” fino al punto di valergli, a causa dei modi distratti e trascurati da lui assunti, il soprannome di “Masaccio”.
La qualità elevata della sua pittura fu riconosciuta già dai suoi contemporanei, che ne notarono la vitalità e l’essenzialità, accostandolo, per grandezza, al predecessore Giotto.
Una pittura, la sua, che si allontanava nettamente dal decorativismo del “gotico fiorito” allora normalmente praticato, caratterizzandosi per: “vivacità dei colori, terribilità nel disegno, rilievo grandissimo nelle figure, et ordine nelle vedute degli scorti”. (1)
Della “Crocifissione”, tavola sommitale facente parte in origine del “Polittico di Pisa” (1426) ed ora conservata al Museo nazionale di Capodimonte, la critica mette in evidenza principalmente due aspetti: il primo, che riguarda le modalità di tipo compositivo, ed il secondo che è maggiormente legato alla caratterizzazione dei personaggi rappresentati.
Riguardo al primo aspetto l’attenzione viene posta innanzitutto sulla costruzione prospettica utilizzata per rappresentare la scena della crocifissione. In particolare facendo notare come l’effetto ottenuto da Masaccio ponendo in basso il punto di vista dell’osservatore sia stato quello di scorciare, da sotto in sù, la veduta d’assieme ed i singoli personaggi.
È noto infatti che, dato il posizionamento originario della cuspide del polittico ad una certa altezza rispetto al pavimento, la Crocifissione sarebbe stata visibile dal basso, e quindi le figure sarebbero risultate ulteriormente scorciate aumentando l’effetto sovrastante del dipinto. La testa del Gesù, inoltre, appare incassata nelle spalle rispetto all’intera figura, dando così l’impressione, se vista dal basso, di essere reclinata in avanti.
Sempre riguardo alla composizione viene notato come le figure non siano disposte secondo una sequenza narrativa bensì collocate in modo da “ordinare” lo spazio della scena determinandone la profondità, in una sorta di dialogo tra volumi che si corrispondono geometricamente.
L’altro aspetto, quello riguardante la caratterizzazione dei personaggi, mette invece al centro dell’attenzione la drammaticità della scena rappresentata (la morte in croce di Gesù).
Ciò che qui viene fatto notare è il modo in cui i personaggi esprimono, con il loro atteggiamento, sentimenti di dolore, sconforto, disperazione, morte.
In particolare l’immagine della Maddalena, inginocchiata ai piedi della croce volgendo le spalle all’osservatore, viene colta nel compiere un gesto considerato di assoluta disperazione ed, almeno in un caso, indicata come la “più alta nota drammatica espressa in pittura dopo Giotto”. (2)
Ora, premesso che vale sicuramente la pena di tenere conto di queste letture qui riportate, che potremmo definire di critica “tradizionale”, alcune delle quali sono, almeno in parte, condivisibili, va detto tuttavia che esse non bastano a mettere chi si avvicina a quest’arte nella condizione di cogliere l’effettiva portata di questo dipinto in termini di contributo artistico-culturale, né in generale quella della pittura rinascimentale nel suo complesso.
Ciò che qui, e quasi sempre, manca nell’attività della critica d’arte, è il riconoscimento della qualità spirituale dell’arte sacra ed in generale dell’arte prodotta fino alla soglia del rinascimento. Mancano la disposizione, l’attitudine e la volontà di riconoscere ciò che, pur essendo celato nel messaggio artistico, ne rappresenta in effetti l’aspetto principale e conferisce alla bellezza dell’oggetto prodotto la sua intrinseca verità. Manca l’idea che l’attività artistica è stata, e dovrebbe continuare ad essere, un dono offerto all’umanità da parte di speciali personalità, capaci di rappresentare in forma di bellezza situazioni esemplari, che siano in grado di aiutare l’anima umana a completare il suo difficile cammino di evoluzione e crescita.
Chi ha avuto la fortuna di poter vedere la “Crocifissione” dal vivo, non cioè rappresentata in qualche forma di riproduzione, non può non aver colto innanzitutto il carattere evocativo e l’atmosfera quasi magica che da essa promana e di cui è possibile divenire partecipi.
I suoi colori, visti nella loro brillantezza originaria, costituiscono il primo dono che si offre, in forma di scoperta, a chi si trova al cospetto del dipinto.
Sono colori che furono studiati e creati apposta per agire nell’interiorità umana con sicurezza e precisione, andando a smuovere energie sottili, costruendo stati d’animo e generando vere e proprie forze trasformatrici. E noi possiamo provare ad osservarli a mente aperta, preparandoci a vivere un’ esperienza molto particolare(3).
E allora osservando l’oro, che illumina lo sfondo del dipinto, si avverte un senso di stabilità e protezione che riesce ad infondere sicurezza evocando la costante presenza attorno a noi del Mondo Spirituale superiore che organizza e regola i fatti della vita.
Osservando l’azzurro intenso, della veste di Maria, sentiamo attivare forze di pensiero, amoroso e cosciente, che ci predispongono ad accogliere intuizioni più elevate.
Osservando il rosso vivo, dell’abito della Maddalena, si comincia a sentire possibile l’incontro tra spirito e materia, ed il nostro animo si predispone al compimento del fare amoroso e creativo nella vita quotidiana.
Osservando il rosa, di cui è vestito il San Giovanni, l’animo di apre alla compassione, promuovendo sentimenti di tolleranza e ed indulgenza con cui l’interiorità umana arricchisce la sua componente più amorosa.
La scelta dei colori, il loro giusto tono, la luminosità, la brillantezza, rispondeva dunque, nell’intenzione dell’autore, ad un obbiettivo preciso, così come nulla di ciò che era presente nelle opere dei grandi maestri d’arte poteva essere dipinto, scolpito o costruito senza che avesse un ruolo nella deteminazione del loro senso complessivo.
In tali opere veniva riversata e trasmessa una saggezza antica, custodita nel corso dei tempi presso circoli iniziatici che spesso si ritrovavano nelle botteghe degli artisti, e che da un certo momento in poi ha cessato quasi completamente di essere interpretata correttamente ed adeguatamente compresa.
Ma nonostante tutto ciò che è stato detto fin qui, non è la croce ad essere protagonista in questo importante e celebrato dipinto, per quanto anch’essa fosse stata resa “vivente” dall’alberello spuntato in cima ad essa (e che era stato nascosto per tanto tempo da un malaugurato restauro).
Protagonista è invece la Maddalena, la cui figura si trova al centro della composizione ed in primo piano, accesa nella sua vivacità dall’abito rosso e nobilitata dal biondo-oro dei capelli sparsi sulla schiena.
Pare che nella fase iniziale essa non fosse presente nella composizione, e che sia stata inserita in un secondo momento da Masaccio, con l’effetto di sovvertire completamente il senso di tutta l’opera.
Il personaggio della Maddalena ha infatti di per sè un’importanza molto maggiore rispetto a quanto comunemente si pensi, che le deriva dalle tradizioni che si sono conservate del cristianesimo dei primi tempi, che aveva un carattere più spirituale.
Essa aveva mantenuto tale importanza nel culto cristiano-esoterico professato dai cavalieri Templari, in cui era ritenuta l’immagine archetipica dell’anima umana, vista nelle fasi che precedevano e seguivano l’incontro con il Cristo, nel corso della storia evolutiva dell’umanità.
Ed è proprio di quest’incontro, di questa scoperta che l’anima umana fa, imbattendosi nell’Amore puro che è sceso in terra nell’essere del Cristo, incarnatosi in Gesù di Nazareth, che si parla in questo dipinto.
Un incontro che letteralmente trasforma un’anima ordinaria in un’anima luminosa, accesa di passione nei confronti dell’Essere dell’Amore che, nel mostrarsi, ha regalato improvvisamente un senso nuovo alla sua esistenza.
La Maddalena veniva spesso rappresentata, e se ne trovano diversi esempi nei dipinti sacri medievali e rinascimentali, mentre compiva un gesto di devozione nei confronti del Cristo, rivolgendosi ai suoi piedi. Tale gesto stava a simboleggiare la scoperta che l’anima faceva del percorso di Cristo in terra, della via dell’Amore puro sceso ad indicare la giusta direzione agli uomini. A partire dal momento di quella scoperta la vita dell’anima sarebbe quindi cambiata, e quel percorso, una volta compreso fino in fondo, sarebbe diventato anche il suo percorso.
Devozione ed ammirazione si rivelavano dunque in quel gesto compiuto dalla Maddalena, al contrario di dolore e disperazione, colmando quella scena di un senso nuovo e vitale, cioè del suo vero senso, ed accendendo in chi lo guardava un rinnovato sentimento di fiducia e di speranza verso il destino umano futuro.
Un messaggio carico di positività ed aspettative di bene è quindi quello che ci trasmette questa “Crocifissione”, così come dovrebbe essere quello di ogni opera d’arte intesa nel suo significato originario ed autentico.
Ed un’immagine inedita di Masaccio pittore è quella che emerge dall’interpretazione di questa sua opera, che ce lo presenta non solo come innovatore di linguaggi e forme di espressione artistica, ma come profondo conoscitore del destino cosmico dell’uomo ed in grado di offrire un contributo positivo, grazie alle sue altissime capacità di artista, al destino evolutivo dell’umanità.
NOTE :
1) Giorgio Vasari, “Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri”, Lorenzo Torrentino, Firenze, 1550.
2) Giulio Carlo Argan, “Storia dell’arte italiana”, Sansoni, Firenze, 1977.
3) Per approfondire il tema dell’azione dei colori sull’interiorità umana è utile riferirsi agli studi effettuati da Wolfgang Goethe e raccolti nel suo: “La teoria dei colori”. Per quanto riguarda gli effetti dei colori sulla struttura umana più sottile sono invece di estremo interesse gli studi presentati da Fausto Carotenuto nell’ambito dei seminari sull’arte tenuti periodicamente a Castelgiorgio (Tr) presso l’accademia di Coscienzeinrete.
I motivi per cui Parigi può essere considerata la capitale dell’arte del XIX secolo sono sicuramente molti e se ne potrebbe parlare a lungo.
Certamente, per la prima volta nella sua storia, è la metropoli francese a diventare crocevia e teatro, soprattutto a partire dalla seconda metà dell’ottocento, delle esperienze artistiche più significative, destinate a fare da riferimento per i principali movimenti artistici del secolo successivo.
Parigi, essendosi rivelata capace di accogliere e far coesistere personalità artistiche di diversa formazione e provenienza, ha reso in qualche modo possibile il fiorire di numerose esperienze anche tra loro apparentemente incompatibili e lontane da quelle che potevano essere le loro comuni radici.
Ma proprio a partire da tali lontananze è possibile rintracciare ciò che accomuna quelle esperienze, così diverse, nonostante la loro contiguità, da rendere lo scenario artistico di fine ottocento talmente eterogeneo da apparire quasi contraddittorio.
Questo tratto comune, che deriva dalla particolarità di una situazione in gran parte caotica e segnata da repentini cambiamenti, coincide, in effetti, con il loro caratteresperimentale.
È infatti a partire dal termine di quella precedente fase, che va sotto al nome di impressionismo, che prende l’avvio una decisa sperimentazione artistica diretta in varie direzioni, e che conduce, nel giro di pochi decenni, al definitivo abbandono, da parte di diversi gruppi di artisti, delle tradizionali tecniche di rappresentazione figurativa.
Già in alcune opere di Claude Monet (1840-1926), considerato la figura più rappresentativa dell’impressionismo, si riconosce in realtà il tentativo di avviare una sorta di sperimentazione in campo artistico, quando di un unico soggetto (pensiamo per esempio alla “Cattedrale di Rouen”) vengono prodotte innumerevoli rappresentazioni con l’obbiettivo di cogliere i diversi effetti di luce nell’arco dell’intera giornata.
Ma per Monet si tratta in fondo soltanto di aggiungere elementi di approfondimento alla sua “poetica” già consolidata, che caratterizza un’arte fondata su di una percezione sensoriale la cui descrizione avviene istante per istante. E che non lascia spazio ad interpretazioni che si occupino di conenuti altri rispetto ad una concezione estemporanea e selettiva della realtà trasfigurata in immagini luminose e resa fruibile come pura parvenza.
Altro sono infatti le sperimentazioni prodotte da artisti che dall’impressionismo hanno sì assorbito, per così dire, il luminoso riverbero ed alimentato con esso la loro iniziale esperienza, ma che grazie a tale spinta sono giunti fino a far nascere nuovi linguaggi pittorici con cui esprimere visioni tutt’affatto diverse, che si ponevano come obbiettivo ultimo, ancorché non dichiarato, quello di restituire in qualche modo all’artista il ruolo ormai desueto di conoscitore ed interprete del proprio tempo.
Oltre la percezione alla ricerca della verità.
Ciò che caratterizza l’opera di Paul Cézanne (1839-1906) sta nella sua intensità, frutto di un imponente lavoro di studio e di pensiero.
Formatosi alla scuola classica di Nicolas Poussin, Cézanne sviluppa una modalità di impostazione costruttiva dell’opera pittorica, fatta di chiarezza, ordine e logica, che si esprimono chiaramente nel risultato della composizione.
Il lavoro svolto sul controllo della luce, frutto dell’esperienza impressionista, viene così ad integrarsi al rigore compositivo, che costituisce l’elemento permanente cui ancorare la rappresentazione e con cui arrivare al superamento della volubilità indotta dalla semplice percezione.
Nella “Montagna Sainte Victoire” (1902-04) il rigore si esprime nell’equilibrio gerarchico delle masse cromatiche raccolte all’interno di una composizione geometrica distribuita su diversi piani. Nulla qui è casuale ma appartiene ad un solo ordine cui anche il più piccolo evento quotidiano è costretto a sottostare.
Dopo la fase dell’ebbrezza impressionista i quadri di Paul Cézanne sembrano ricordarci l’esistenza di una legge, di una forma di superiore controllo con cui anche il più ribelle ed indipendente fra gli artisti è tenuto a misurarsi.
E successivamente, nel momento in cui alle corrispondenze geometriche si aggiunge una ricerca di equilibri dinamici, svincolati dalla necessità di ricondurre le linee ad un unico punto di osservazione, come nel caso delle “Grandi bagnanti” (1906), Cézanne anticipa, a detta di molti, quella che sarà la visione policentrica sviluppata dai cubisti, che viene qui sperimentata pur senza abbandonare le suggestioni e la ricchezza espressiva contenuta nella lettura figurativa della realtà.
Dallo straniamento verso un simbolismo primordiale.
Pittore autodidatta, Paul Gauguin (1848-1903) esce, per così dire, dalla gabbia del sistema economico-sociale (lavorava come agente di cambio) ad un certo punto della sua vita per dedicarsi interamente all’arte senza sottostare a compromessi.
Nei suoi quadri sono chiaramente assenti sia le suggestioni derivanti dalle ricerche sulla luce di matrice impressionista, sia le tracce degli studi sullo spazio e sulla profondità dell’immagine di tradizione classica ed accademica.
Egli fa tuttavia propria la poderosa spinta verso la ricerca di un nuovo orizzonte espressivo fino al punto di esprimere con i pochi mezzi tecnici della sua pittura una concezione esistenziale in aperta rottura con la visione della cultura dominante.
Un’arte, quella praticata da Gauguin, che viene vissuta come espressione di integrazione fra diverse culture (notevole in questo senso l’esperienza tahitiana), e che si fa portatrice di una religiosità popolare attraverso l’uso di un simbolismo grossolano ma efficace.
L’utilizzo di campiture di colore antinaturalistiche, di figure piatte, di contorni netti colgono l’obbiettivo di ricondurre l’attenzione dell’osservatore a pochi semplici messaggi (la critica parla a questo proposito di sintetismo).
Lontano anche dai riferimenti culturali della tradizione pittorica, Gauguin punta decisamente a praticare un canale comunicativo di tipo emozionale, cercando di suscitare, anche se in modo spesso scomposto, reazioni intessute di forti sentimenti, aprendo così la strada a percorsi artistici in seguito sviluppati dalla corrente espressionista.
Dal realismo alla pittura visionaria.
Da ammiratore ed amico di Gauguin, Vincent Van Gogh (1835-1890) non può che approdare ad una pittura di forte impatto emotivo, espressione compiuta dell’attività dettata dal proprio animo tormentato che, dopo aver segnato profondamente gli anni della produzione artistica, lo condurrà infine al suicidio.
Anch’egli approdato alla pittura vissuta come esperienza amatoriale, Van Gogh si appassiona inizialmente ad una forma di realismo mistico, in cui si fa accompagnare al seguito dell’opera di Jean François Millet (1814-1875), ed avvicinandosi cosi a forme di lettura della realtà in netta controtendenza rispetto alla cultura dominante.
L’attenzione dedicata alla condizione dei ceti subalterni, dei sopravvissuti ai rivolgimenti indotti dal progresso in corso, si trasforma quindi, negli anni successivi, nell’espressione di una ricerca interiore, che possa dare voce alle inquietudini esistenziali di ogni singola anima, impegnata alla ricerca di un sollievo rispetto alle sofferenze ed alle insoddisfazioni date dalla propria condizione.
Sorgono così immagini pittoriche di inusitata possenza.
Dominate da tratti vigorosi di colore intenso e pastoso, le tele di Van Gogh ci consegnano l’immagine di una realtà deformata dal sentimento. Di una natura che non ha nulla di naturale ma che è stata rielaborata e restituita in una visione estatica, carica di suggestioni, testimonianza di un disagio sulle cui cause profonde permane una fitta oscurità.
Considerato unanimemente artefice di una grande pittura dei sentimenti, anche per Van Gogh si parlerà di anticipazione di esperienze che saranno fatte proprie, nel secolo seguente, dalla corrente artistica dell’espressionismo europeo.
Una visione scientifica per l’universalità dell’arte.
Accanto alle ricerche fondate sul recupero dei sentimenti esistenziali più profondi, viste qui nel caso di Gauguin e, più ancora, di Van Gogh, si trova anche, come esito maturo dell’esperienza impressionista, uno sviluppo radicale degli studi sulla luce applicati alla tecnica pittorica per il quale è stata usata la definizione di “neo-impressionismo”.
Sotto la spinta del progresso degli studi scientifici, già ampiamente messi al servizio, nel corso del secolo, delle principali trasformazioni avvenute in ambito produttivo, anche l’attività artistica trova il modo di raccogliere particolari contributi offerti da studi effettuati nel campo dei fenomeni fisici nel tentativo di rifondare, in senso moderno, la tecnica pittorica.
Il pointillisme (o puntinismo), si basa appunto su di una tecnica che prevede la composizione cromatica della tela data come risultante dell’accostamento, appositamente studiato, di aree colorate molto piccole e distinte tra loro.
Tale tecnica, fondata sul principio del “contrasto cromatico” elaborato in ambito scientifico (1), consente di ottenere, attraverso l’accostamento di colori complementari, un effetto di luminosità aumentata, nel momento in cui l’immagine complessiva del dipinto è il risultato di una mescolanza (prodotta dall’occhio al momento della percezione) dei diversi colori utilizzati.
George Seurat (1859-1891), è , insieme a Paul Signac (1863-1935) il massimo esponente del puntinismo.
Egli produce opere in cui lo studio e la precisazione della tecnica adottata è l’aspetto più significativo e curato della sua intera elaborazione.
Risulta difficile non notare come in essa il desiderio di affinare e rendere accettata tale tecnica faccia premio sulla composizione dell’opera e sui suoi contenuti, che non aggiungono molto a quanto già sperimentato in ambito impressionista.
Ed il senso di sospensione e distacco riscontrabile nelle sue opere principali, che sta alla base della loro caratteristica freddezza (pensiamo ad esempio a “Una domenica alla grand Jatte” del 1884-86), sembra essere il risultato più evidente e significativo del tentativo di giungere, attraverso l’applicazione di una formulazione scientifica, a riaprire l’orizzonte dell’arte pittorica, ormai relegata ai margini nel campo della rappresentazione della realtà, in direzione di una nuova, ed obbiettivamente inaspettata, universalità di linguaggio.
NOTE :
1) Tale principio, detto anche « Legge dei contrasti simultanei », fu formulato da Michel Eugène Chevreul (1786-1889), chimico francese, nell’ambito di studi da lui svolti sulla colorazione tessile nel 1839.
Forse l’aspetto più interessante riguardo all’evolversi della produzione artistica nella prima parte del 1800 sta proprio nel rispecchiarsi in quelle opere di un più generale sviluppo del pensiero e delle coscienze che, a partire dall’effetto caotizzante prodotto dalla rivoluzione francese, si assesta su due filoni principali, i quali sembrano riassumere, nella loro complementarietà, i tratti principali di un unico percorso.
I grandi cambiamenti sociali, avvenuti ed ancora in corso, la nuova economia produttiva e la redistribuzione del potere costituiscono lo scenario in cui il pensiero filosofico illuminista per primo compie la sua opera di razionalizzazione.
Viene data così concretezza a nuove forme di organizzazione della vita sociale che vengono fondate su di una visione complessiva in cui viene posta al centro la maturata capacità umana di gestire direttamente i processi storici.
Ed è proprio nel suo saper adattarsi a questo scenario che l’arte neoclassica può essere vista come arte “istituzionale”, attenta ad aderire ad un codice unitario e ad offrirsi come strumento di avvaloramento culturale delle nuove forme di organizzative in corso di costituzione.
Dall’altra parte, e certamente anche come reazione conseguente a questa forma di adattamento, diversi percorsi artistici riflettono insofferenza rispetto al nuovo ordine costituito e cominciano a prendere una strada che li allontana dalla realtà intesa come prassi. Essi tendono a costruirsi attorno alla soggettività dell’artista, il quale si trova sempre più in una posizione separata rispetto alla società opponendo ad essa la propria visione della storia, la riscoperta delle proprie tradizioni culturali ed una visione del mondo personale intessuta di sentimento.
Non è quindi un caso che gran parte dell’attività artistica riconducibile all’indirizzo neoclassico si esprima principalmente nell’architettura, a conferma di quell’assunzione di ruolo compiuta dall’artista che essenzialmente si traduce nella codificazione e razionalizzazione di istanze collettive.
La ripresa sistematica del linguaggio classicista, adattato sapientemente all’utilizzo di nuove tipologie edilizie, ambisce per l’appunto alla definizione di un codice espressivo universale, imitabile e dunque riproducibile, con cui riformare l’ambiente delle relazioni in senso moderno e condiviso.
L’architettura neoclassica si configura quindi essenzialmente come arte “urbana”, diretta a rappresentare nel luogo di elezione della nuova società in formazione la rispondenza ad ideali universali, che non sono più espressione di un principio di autorità assegnato per diritto divino, ma piuttosto il materializzarsi di un sistema di valori destinato a dare struttura ad una nuova società civile a partire dallo spazio costruito, in cui essa possa riconoscere i punti di riferimento della propria forma di organizzazione.
L’attività di Giuseppe Piermarini (1734-1808) svoltasi a Milano, a partire dalla costruzione del celebre Teatro alla Scala (1776-78), che costituirà il modello riconosciuto del moderno teatro d’opera, è appunto segnata dalla progettazione di importanti opere pubbliche, condotta nella sua qualità di regio architetto.
Tali opere avrebbero aperto la strada al lavoro di altri architetti del medesimo orientamento che giungerà fino alla redazione di un vero e proprio piano di riforma urbana della città lombarda, rimasto in seguito sulla carta a causa della repentina caduta del regno d’Italia. (1)
Il linguaggo internazionale del neoclassicismo si afferma in modo analogo anche in altre regioni Italiane, come avviene per il centro sud, dove si segnalano gli interventi di Giuseppe Valadier (1762-1839) a Piazza del Popolo a Roma e la sistemazione di Piazza del Plebiscito a Napoli su progetto di Leopoldo Laperuta (1771-1858).
Nell’Europa orientale trova invece risonanza il lavoro svolto dal bergamasco Giacomo Quarenghi (1744-1817), cui si deve il rinnovamento della zona monumentale di San Pietroburgo, capitale della Russia zarista.
Fenomeno artistico non unilaterale, il neoclassicismo si esprime anche in forme puramente “visionarie”, così come si possono interpretare ad esempio le vedute di antichità romane di Giovan Battista Piranesi (1720-1778), oppure sotto forma di progetti quasi utopici, come quelli redatti dagli architetti “rivoluzionari” francesi Etienne-Louis Boullée (1728-1799) e Claude-Nicolas Ledoux (1736-1806), autori appartenenti alla cerchia dell’Encyclopédie che interpretano radicalmente l’aspirazione all’universalità del dettato illuminista producendo idee destinate a restare in gran parte irrealizzate.
Sul versante delle arti figurative il neoclassico esprime una pittura di impostazione strettamente accademica che, fondandosi sul repertorio dei miti classici, si fa simbolicamente interprete degli ideali rivoluzionari prima e di quelli più propriamente napoleonici in seguito, degenerando poi, in casi più o meno espliciti, in forme di rappresentazione celebrativa del potere imperiale.
Un’arte aderente in tutto e per tutto a canoni prestabiliti è anche quella dello scultore Antonio Canova (1757-1822), dotato di grandissime qualità tecniche e capace di riprodurre in modo esemplare gli ideali estetici teorizzati in sede critica dal Winckelmann (2).
Autore di opere di grande qualità formale il Canova mostra tuttavia in esse il limite espressivo di una ricerca estetica intesa in effetti come puro fatto esteriore.
A fronte dell’esperienza neoclassica si pone quindi, a distanza di qualche decennio, una ricerca artistica che ne costituisce, per certi aspetti, l’mmagine polare.
Lontana dall’accademismo e dall’approccio imitativo l’arte romantica percorre strade nuove ed imprevedibili, stabilendo il fondamento del proprio operare affidandosi al genio dell’artista.
Proprio nel momento in cui il macchinismo e la ricerca della produttività iniziano a conformare il mondo a propria immagine, l’artista romantico sceglie di rivolgersi ai temi del pittoresco e del sublime , che diventano in qualche modo essi stessi segnali di una drastica inversione di tendenza.
La rivalutazione dell’arte gotica e la ricerca delle radici culturali di popolo nelle tradizioni culturali localizzate oppongono all’universalismo delle accademie una concezione dell’arte come esperienza creativa individuale, che cerca sì di cogliere l’universale, ma in circostanze differenti, vivendolo come fatto intuitivo, al di fuori delle regole dei linguaggi codificati.
Rivelatrici sono, a questo proposito, le esperienze pittoriche di artisti come Caspar David Friedrich (1774-1840) in Germania, che pone il tema esistenziale al centro del rapporto uomo-natura, o di John Constable (1776-1837) in Inghilterra, che sviluppa un paesaggismo carico di sentimento, trasferendo il “genere” settecentesco in una dimensione più personale e comunicativa.
Un percorso analogo a quello di Constable viene seguito, sempre in Inghilterra, da William Turner (1775-1851), che porta a conseguenze più radicali lo sviluppo dei concetti romantici di pittoresco e di sublime. Turner abbandona senza timore il tratto realistico del disegno per dare alla sua pittura un carattere fortemente evocativo, scandendola con decisi contrasti di luce e colore e trasformando le rappresentazioni della realtà in esperienze qualitative da vivere interiormente.
Sempre seguendo idealmente questo orientamento individuato dal romanticismo “nordico” si incontrano le esperienze pittoriche di Friedrich Overbeck (1789-1869), esponente del gruppo tedesco dei Nazareni, che a Roma cercano ispirazione seguendo modelli proto-rinascimentali e producendo opere contraddistinte da una semplicità quasi ascetica.
Si giunge poi all’opera della Confraternita dei Preraffaelliti, di cui Dante Gabriele Rossetti (1828-1882) e John Everett Millais (1829-1896) sono gli esponenti più noti.
Anche la pittura preraffaellita è pittura di storia, che vive di tradizioni e modelli culturali derivati dal medioevo e dalle diverse fasi del rinascimento. In essa si riconosce chiaramente il tentativo di smuovere, a partire dai temi affrontati e dalla ricerca formale che mostra spesso una tensione quasi estatica, una memoria profonda, volta a coinvolgere ed mettere sentimentalmente in discussione il fondamento stesso della propria umanità e dei propri valori.
All’interno delle esperienze artistiche “di opposizione” all’accademismo neoclassico rientrano poi opere tra loro diverse e difficilmente classificabili genericamente come romantiche.
Parzialmente a cavallo delle due correnti troviamo la figura di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867), artista di formazione neoclassica, che approfondisce la pittura di storia e sviluppa una personale ricerca estetica che si allontana in parte dai canoni riconosciuti, accogliendo suggestioni di matrice maggiormente realistica pur nel disimpegno dato da una concezione dell’arte come ricerca estetica fine a sé stessa.
Storia e realismo caratterizzano anche il repertorio di artisti come Théodore Gericault (1791-1824) ed Eugené Delacroix (1798-1863), per i quali l’interpretazione della realtà contemporanea diviene esercizio simbolico in cui coesistono elementi di linguaggio di derivazione classica con accenti realistici tendenti al grottesco. Con loro si apre con chiarezza la strada ad un’arte ideologicamente impegnata nell’attualità, in cui, al posto del tradizionale riferimento a personaggi noti attorno a cui costruire il senso della rappresentazione, il ruolo di soggetto viene affidato alla gente comune, improvvisamente ed inaspettatamente divenuta protagonista, seppure inconsapevole, sulla scena della storia.
Tornando in Italia troviamo come massimo rappresentante della pittura di storia il veneziano Francesco Hayez (1791-1882), attivo principalmente a Milano come ritrattista ufficiale dell’aristocrazia.
Hayez ha il merito di sviluppare un genere che viene considerato, per quanto si possa dire, il corrispettivo pittorico del romanzo storico, e che, come tale, non è esente dall’essere portatore di contenuti etici e civili.
Pur non essendo autore di opere di eccezionale valore artistico, egli riesce tuttavia a costruirsi un repertorio di soggetti iconografici di una certa efficacia trovando un lungimirante accordo tra i temi affrontati, il linguaggio espressivo adottato ed i gusti di un pubblico più ampio, col quale l’artista moderno si troverà, d’ora in avanti, sempre più costretto ad avere a che fare.
NOTE :
1) Il riferimento è qui al cosiddetto “Piano degli Artisti”, ad opera degli architetti Albertolli, Cagnola, Canonica, Landriani e Zanoja, facenti parte della Commissione di pubblico ornato, che furono incaricati nel 1807 dal governo del primo Regno d’Italia, retto da Eugenio di Beauernais, di redigere un piano di riordino della città. Del piano, che venne completato in soli sette mesi, resta un’interessante documentazione da cui si riconosce una profonda comprensione della struttura urbana allora esistente e della sua stratificazione avvenuta per epoche successive. Il progetto prevedeva interventi tali da mettere in relazione il complesso del Castello Sforzesco con il centro cittadino, da cui fin dall’epoca della sua costruzione era sempre rimasto separato, ed operava in modo da collegare l’intera città con il proprio territorio attraverso il riconoscimento ed il potenziamento di determinati assi viari, sia nuovi che esistenti, che diventavano riferimenti strutturanti per la futura costruzione ed espansione urbana.
2) Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) è stato storico dell’arte tedesco, autore tra l’altro del testo : « Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura » del 1755, considerato il primo manifesto del neoclassicismo.
È certamente alla fase più matura dell’arte barocca che occorre guardare per comprendere gli sviluppi che hanno portato, nel corso del XVIII secolo, all’affermarsi di quel particolare gusto per la decorazione che divenne tipico degli ambienti aristocratici e che ebbe fortuna presso le principali corti europee.
Ma, per avere un quadro più completo delle tendenze artistiche che nel ‘700 entrarono in gioco, occorre anche tenere conto di quelle esperienze particolari che, allontanandosi dai modelli classici, si legarono a posizioni più vicine a forme di realismo e quotidianità, e che servirono a preparare il terreno ad un arte rivelatasi in seguito più rispondente al nuovo orizzonte culturale che si stava formando alle soglie dell’epoca contemporanea.
Perduta, dopo il rinascimento, la sua unitarietà, ed ormai incapace di offrire risposte universalmente valide rispetto alle grandi questioni esistenziali con cui l’umanità era chiamata a misurarsi, la funzione artistica cominciava infatti ad esprimersi su piani distinti e, per certi aspetti, tra loro contrapposti.
Il tentativo di interpretazione della realtà prodotto dagli artisti con la loro opera dava luogo a quel punto a visioni frammentate, fortemente parziali, e quindi complessivamente inefficaci rispetto ad una lettura che potesse fare chiarezza del processo evolutivo in atto, rispetto al quale le coscienze umane erano esposte a nuove, inaspettate ed incalzanti sollecitazioni.
É quindi da opere come quelle di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), dalla loro quasi imbarazzante “opulenza”, che occorre partire per cogliere il germe della vocazione decorativa e priva di reali contenuti che si esprime nel corso del ‘700 e che è stata classificata in seguito come stile “rococò”.
Già l’arte barocca era stata infatti un’arte che faceva del proprio linguaggio il vero oggetto della sua ricerca, conducendolo purtuttavia a livelli espressivi di grande raffinatezza.
Essa non aveva pretese di autonomia, bensì poneva il proprio sovrabbondante codice espressivo al servizio delle esigenze del “principe” di turno, sia che si trattasse del papato romano, come nel caso di Bernini, Borromini e Pietro da Cortona, sia che riguardasse più laicamente le maggiori monarchie europee, quella francese e quella spagnola, come nel caso di Pieter Paul Rubens (1577-1640) e di Diego Velasquez (1599-1660).
In modo analogo accade quindi, nel secolo successivo, per il rococò, termine di derivazione francese con cui si dà nome al gusto sviluppatosi come arte di corte nella prima metà del 700 , che rende appunto conto dell’evoluzione di una produzione artistica destinata a compiacere un pubblico sempre più ristretto ed elitario, che amava circondarsi di scenografie artefatte, scene mitologiche e situazioni galanti ambientate sullo sfondo di lussureggianti dimore e di giardini privati. (1)
É questa dunque una vera e propria arte dell’aristocrazia, che trova nella pittura spettacolare e celebrativa di Giovanbattista Tiepolo (1696-1770) la sua rispondenza ideale, e che si sviluppa avviandosi nella direzione di assumere un carattere di rottura quasi antistorica ed antipopolare nell’edificazione delle grandi e scenografiche “regge” delle corti europee.
Pensiamo in proposito ai palazzi di Caserta e Stupinigi per quanto riguarda l’Italia, ed a quelli di Versailles e Vienna in Europa, che con le loro dimensioni del tutto fuori scala rispetto all’edilizia corrente sembrano volutamente approfondire il solco separatore esistente tra ceti dominanti e popolazioni subalterne, preparando incautamente il terreno ad imminenti e tragici confronti e rivoluzioni sociali.
Ma le esperienze artistiche del seicento non erano, come dicevamo, limitate all’espressione più “aulica” di una realtà che era già carica, in effetti, di tensioni contrastanti, e si diffondevano anche nel descrivere direttamente episodi di vita quotidiana registrandoli nella loro immediatezza, oppure a trasferire i dati di un’osservazione obbiettivo-percettiva all’interno di temi rappresentativi della tradizione sacra o comunque devozionale.
E qui pensiamo ai Carracci, a Caravaggio ed ai suoi continuatori, per arrivare in ambiente napoletano alle figure di Mattia Preti (1613-1699) e Salvator Rosa (1615-1673) e poi, forse più significativamente, fino a Gaspard van Wittel (1653-1736).
Nel ‘700 l’eredità di questo filone, definibile genericamente come naturalistico, viene raccolta da Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), cui si può affiancare l’opera di Pietro Longhi (1702-1782), esponente di riferimento della pittura “di genere” a Venezia, nell’offrire in vari modi un apprezzabile spaccato della vita cittadina così come si manifestava nella realtà quotidiana.
Si sviluppa quindi una forma di osservazione della realtà che tende a collezionare situazioni ed immagini, senza la pretesa di comprenderne il significato, ma limitandosi a considerarne l’aspetto esteriore per descriverlo nei dettagli.
Persino l’antichità classica, che in passato era stata oggetto di uno studio attento, rivolto a comprenderne l’essenza costitutiva da parte dei maggiori artisti, viene adesso considerata alla stregua di un misterioso retaggio, utile a sollecitare la curiosità di qualche avventuroso umanista sul punto di intraprendere l’esclusiva esperienza del grand tour attraverso l’Europa.
Il “vedutismo” sorge quindi direttamente da questo atteggiamento, che si potrebbe definire di “presa d’atto” di ciò che si vede, e si sviluppa in modo tematico come vero e proprio genere.
A differenza dell’arte aristocratica, quindi, che era basata su fantasiosi repertori provenienti dalla tradizione classica e ricostruiti a tavolino, la pittura di vedute trae spunto dall’osservazione diretta, avvicinandosi in questo modo alla realtà attraverso una processo puramente visivo.
Questo atteggiamento analitico, che si traduce nella rigorosa procedura osservativa messa in atto dai pittori con l’ausilio di un’apposita apparecchiatura, determina contemporaneamente la qualità ed il limite delle rappresentazioni che da esso derivavano, e che incontrano, significativamente, un grande favore di pubblico in Europa.
La qualità risiede nella spinta genuina verso l’oggettività della rappresentazione, che avviene con l’affidamento completo al dato sensibile tradotto poi graficamente applicando la prassi prospettica derivata dagli studi rinascimentali.
Il limite sta nel confondere, da parte degli artisti, l’oggettività con la stessa procedura, rinunciando nei fatti a comprendere il senso della realtà e limitandosi a restituirne l’immagine esteriore, cercando quindi di ottenere un risultato unitario per sommatoria di dettagli a partire da un unico, convenzionalmente assunto, punto di vista.
I quadri di Canaletto (Giovanni Antonio Canal 1697-1768), che costituiscono il livello più rappresentativo del vedutismo veneziano, sono di una precisione stupefacente.
Grandi scenari luminosi, quasi asettici, restituiscono un’immagine di una Venezia descritta nei minimi dettagli, e che tuttavia, pur nella spettacolarità dell’effetto panoramico, sembra essere popolata soltanto da comparse teatrali. (2)
La grande attenzione compositiva e la fedele riproduzione dei dettagli anche più minuti poco ci dicono infatti della realtà della vita umana e del suo senso complessivo, dedicandosi soltanto alla elencazione, quasi una catalogazione, delle diverse attività che animavano la scena cittadina.
Canaletto descrive con distacco, quasi scientifico, ciò che vede, anticipando un atteggiamento culturale che diventerà dominante di lì a poco e che designerà oggetto di conoscenza soltanto ciò che si sarebbe reso accessibile grazie ai “lumi della ragione”.
È un’oggettività particolare dunque, quella da lui interpretata, che paradossalmente sembra allontanare dalla realtà “viva” il compito artistico, sostituendo ad essa una rappresentazione che pare essere stata messa a punto, con grande accuratezza, in un laboratorio.
Occorre allora forse confrontare l’opera di Canaletto con quella di Francesco Guardi (1712-1793) per riconoscere la differenza che passa tra un modo distaccato, quasi professionale, di guardare alle cose del mondo, ed un altro in cui il sentimento entra in gioco, dando profondità alla visione pur restando all’interno di una particolare chiave interpretativa.
Guardi rappresenta Venezia per vedute, come fa Canaletto, introducendo però nelle sue immagini, sfumandole in un’atmosfera fatta di vibrazioni, quel senso di precarietà e di decadenza che evidentemente si respirava nella Repubblica, ormai da diversi decenni, alla vigilia della sua caduta.(3)
Dunque Guardi si avvicina maggiormente al traguardo dell’oggettività della visione, rispetto a quanto non faccia Canaletto, seguendo la strada dell’ispirazione personale, che egli sceglie infine di non sacrificare, instaurando piuttosto una mediazione tra il proprio “sentire” artistico e l’adozione di un mezzo espressivo già collaudato in funzione di un procedimento sottoposto al prevalente controllo razionale.
D’ora in avanti, come si è visto più sopra, i percorsi artistici tendono perciò a dividersi ed a delinearsi maggiormente come risposta ad un certo tipo di committenza.
È lo stesso Tiepolo ad ammettere spregiudicatamente ad un certo punto che l’artista aveva necessità di prendere coscienza del proprio ruolo sulla base di valutazioni di tipo socio-economico, che sole costituivano la base concreta su cui fondare le proprie scelte culturali ed artistiche: ”Li pittori devono procurare di riuscire nelle opere grandi, cioè in quelle che possono piacere alli Signori Nobili, e ricchi, perché questi fanno la fortuna de’ Professori, e non già l’altra gente, la quale non può comprare quadri di molto valore. Quindi è che la mente del pittore deve sempre tendere al sublime, all’Eroico, alla Perfezione.” (4)
L’arte sta dunque facendo il suo ingresso nel mercato, ed iniziando ad essere soggetta a condizionamenti non più limitati al rapporto diretto artista-committente, ma che si estendono anche all’intervento dei ruoli intermedi della distribuzione e della vendita, di mercanti e galleristi, che ne rendono lo scenario più complesso e, certamente, più condizionabile.
E si tratta di un’arte complessivamente meno libera, di cui però si comincia a parlare, a partire dall’ambito illuminista, nei termini specialistici della “disciplina autonoma”.
Di essa si può, a questo punto, individuare e formulare una storia indipendente, compilata e commentata da una “critica” di settore opportunamente specializzata.
Su di essa è diventato possibile esprimere giudizi e valutazioni, facendoli derivare da una specifica teoria “estetica”, intesa come articolazione conoscitiva in corpo al sapere filosofico.
A quest’arte verrà infine attribuito un valore “sociale”, riconoscendola come potenziale strumento di educazione morale e civile, ponendo quindi le basi di un suo successivo sviluppo quale arte “militante” o “di corrente”, i cui esiti, spesso ambigui e contraddittori, arriveranno ad essere riconosciuti ed accettati fino ai giorni nostri.
NOTE:
1) Il termine rococò deriva dal francese rocaille, che si riferisce alle decorazioni di pietruzze e conchiglie per giardini, grotte e padiglioni. Esso venne in seguito utilizzato dai classicisti di fine ‘700 in chiave dispregiativa.
2) Significativo a questo proposito il fatto che Canaletto iniziò la sua attività come scenografo lavorando accanto al padre ed al fratello.
3) La Repubblica di Venezia cade, dopo secoli di prosperità ed indipendenza, per mano francese nel 1797.
Quando all’inizio del XVI secolo, dopo aver raggiunto il proprio culmine nell’opera dei suoi maestri maggiori, l’esperienza rinascimentale sta per concludersi, si sviluppano in ambito artistico particolari forme di sperimentalismo che si identificano come reinterpretazioni e “maniere” costruite sull’opera degli autori precedenti. La fase di cambiamento, che condurrà anche l’attività degli artisti a profonde modificazioni, è però a questo punto già incominciata.
Nel 1517 Martin Lutero pubblica le tesi che danno inizio alla riforma protestante e, soltanto dieci anni più tardi, la discesa in Italia dei Lanzichenecchi di Carlo V, che invadono e saccheggiano Roma occupandola per circa un anno, ha quasi i connotati di una crociata antipapalina.
La messa in crisi dell’unità religiosa a livello europeo determinata dallo scisma coincide in effetti con una drastica diminuzione di autorità della chiesa romana, che, di fronte all’emergenza, si muove risolutamente serrando le proprie fila.
Nel 1545 viene indetto il Concilio di Trento che attiva un imponente processo di riorganizzazione teologica e disciplinare interno all’istituzione religiosa.
Con il Concilio, che si protrae in modo discontinuo fino al 1563, la Chiesa intende da un lato promuovere una vera e propria guida orientativa per il clero impegnato nello svolgimento delle sue funzioni, e dall’altro agire preventivamente per arginare, con opportune iniziative, la messa in discussione della dottrina cattolica e la conseguente diaspora dei fedeli.
L’attuazione dei provvedimenti decisi in Concilio, la cosiddetta “Controriforma”, prende quindi consistenza traducendosi, oltre che nelle nuove disposizioni in materia di catechismo e di liturgia, nella revisione di quelli che erano i modelli culturali di riferimento, attraverso i quali il patrimonio ecclesiastico, sia architettonico che iconografico, veniva ampliato e gestito.
Lo sforzo di rinnovamento della propria immagine, operato dalla Chiesa, investe quindi direttamente l’arte sacra, non risparmiando, tramite i suoi veti e la sua censura, neppure le opere di artisti della più grande importanza, come nel caso di Paolo Veronese, che si trova a dover subire un vero e proprio processo, e, fatto certamente più grave, nel caso di Michelangelo. (1)
I due centri principali della Controriforma in Italia sono la Roma di Pio IV e la Milano del vescovo Carlo Borromeo. I due edifici che fungono da riferimento e modello per la nuova chiesa controriformata sono rispettivamente la chiesa del Gesù a Roma, opera del Vignola, e la chiesa di San Fedele a Milano, del Tibaldi. Entrambe queste chiese sono destinate all’ordine dei Gesuiti.
Lo spazio interno della nuova chiesa, concepito come risposta alle esigenze emerse in ambito conciliare, ha come caratteristiche principali la semplificazione dell’impianto e la chiara definizione dei singoli ambienti funzionali.
La navata unica sostituisce lo spazio più articolato tipico della basilica tradizionale “esponendo” i fedeli ad un rapporto frontale con il pulpito della predicazione, ed escludendo ogni altra fruizione alternativa che non abbia una destinazione precisa (come ad esempio nel caso delle cappelle laterali dedicate).
La forma longitudinale della navata adottata nel nuovo modello serve ad amplificare la teatralità dell’azione liturgica e sancisce definitivamente l’abbandono delle tipologie a pianta centrale di tipo rinascimentale, riaffermando contemporaneamente la basilare distinzione di ruoli tra clero e credenti, ovvero tra esercizio dell’autorità religiosa e pratica devozionale. (2)
Rispetto agli sviluppi presi dall’architettura sacra, che sembrano abbastanza definiti, la situazione nell’ambito delle arti figurative al termine del XVI secolo si presenta invece più articolata. Ed accanto ad alcune risposte già esplicitamente allineate con l’azione controriformista operata dalla Chiesa, si sviluppano poi progressivamente altre interpretazioni differenti.
Alle richieste di maggior rigore nella scelta dei soggetti sacri fanno infatti immediatamente riscontro, su indicazione dei Gesuiti, scene che si prestano ad un certo tipo di “meditazione” di carattere penitenziale, incentrate sui temi del martirio e della sofferenza.
Fanno capo a questo repertorio le raffigurazioni dei momenti più drammatici della passione di Cristo, le scene di vita dei santi martiri e gli episodi più importanti della vita degli apostoli, che vengono portati ad esempio delle virtù cristiane.
Alle opere freddamente impersonali ed accademiche di Federico Zuccari (1539-1609), che in ambiente romano rispondono a questi criteri, trovano corrispondenza in Lombardia quelle più spiccatamente devozionali dei fratelli Campi, cui pare fosse riservata direttamente la predilezione di Carlo Borromeo, che da parte sua fa della diocesi milanese un modello di gestione pastorale ispirato in modo rigoroso ai principi della Controriforma.
A queste prime significative esperienze si possono accostare, a distanza di circa un decennio, quelle del pittore urbinate Federico Barocci (1528-1612), che abilmente si discosta dal repertorio più “classico” comprendendo nei soggetti sacri che si appresta a rappresentare alcune scene di schietta quotidianità, con l’intento evidente di rendere maggiormente accessibile, quasi confidenziale, il messaggio dottrinale contenuto della propria opera.
La strada percorsa dal Barocci, nella sua apparente semplicità, è ai nostri occhi particolarmente significativa perché può aiutare a comprendere un passaggio importante che si compie in questa fase dell’evolversi dell’arte sacra, e che ne segnerà gli sviluppi nei secoli successivi.
Un passaggio che si delinea, in questo caso, con la “riduzione” del senso dell’opera riguardante il tema sacro alla rappresentazione di un evento di tipo miracolistico-popolare, in cui la dimensione spirituale della realtà e la natura stessa del divino sembrano restringere il proprio significato all’eccezionalità episodica dell’evento stesso.
Nella sua “Madonna del popolo” il Barocci in effetti utilizza alcuni dei principali elementi iconografici provenienti dalla tradizione cristiana, come le figure del Cristo, di Maria, della Colomba, e degli Angeli, e li rappresenta con buona capacità di controllo dei mezzi espressivi classici e del colorismo della tradizione veneziana. Tali elementi restano tuttavia qui legati al loro ruolo più esteriore, senza entrare in alcun modo a far parte di una scena dal significato più ampio che non sia quello della semplice apparizione. (3)
Avvolte da una particolare atmosfera che pervade tutto il dipinto, le figure di Cristo e di Maria diventano a tutti gli effetti parte di una scena cui manca un effettivo “senso del sacro”, e tendono a confondersi con quella varia umanità che assiste incuriosita a ciò che sta accadendo. Con quel popolo, cioè, che è il vero protagonista della rappresentazione, e che distolto per qualche momento dalle proprie quotidiane occupazioni sembra essere intervenuto, per l’occasione, ad una festa di paese.
A questa generale perdita di significato della rappresentazione sacra, che non sembra più poter andare oltre il racconto letterale degli episodi biblici o devozionali, corrisponde un generale venir meno della sua portata espressiva e della possibilità di agire positivamente ed in modo compiuto sull’anima dell’osservatore.
Ci troviamo, in altre parole, di fronte ad una riforma della funzione profonda avuta in passato dall’arte figurativa, che viene, per così dire, ora a trovarsi “depotenziata” rispetto al suo mandato originario.
Come se avesse superato un immaginario spartiacque, l’artista, da questo punto in poi, non ha più ruolo di tramite, come aveva avuto in precedenza, tra le grandi verità superiori e l’umanità impegnata nella propria crescita individuale e collettiva. E non è più in grado di farsi interprete di quelle leggi e conoscenze spirituali che attraverso la sua opera egli aveva cercato di avvicinare e rendere accessibili a tutti coloro che le avessero cercate.
Anche perché impegnato a rispondere alla richiesta di legarsi ad un’ortodossia applicata ai temi religiosi egli rinuncia, forse proprio perché non più capace di farlo, ad andare oltre alle domande formulate dalla propria committenza (istituzionale o privata che fosse) limitandosi ad esprimere nella sua opera visioni personali, prive in effetti di reale profondità spirituale.
Le maggiori esperienze pittoriche di fine cinquecento, quelle condotte dai fratelli Carracci da una parte, e da Caravaggio dall’altra, rappresentano quindi, sia pure in modo diverso tra loro, il passaggio successivo rispetto a quanto aveva cominciato ad emergere nei decenni precedenti, esprimendo nelle forme del “classicismo” ed “eclettismo” dei primi, e del “naturalismo” e “realismo” del secondo, l’esito più compiuto del processo che si è cercato di delineare.
Così nelle “Annunciazioni” eseguite da Ludovico Carracci (1555-1619), rispetto al rigore ed all’equilibrio compositivo sviluppato secondo il canone di un rinnovato accademismo, prevale la “domesticità” della scena, in cui le figure di Maria e dell’Arcangelo Gabriele possono ricordare, con le loro espressioni, quelle di due ragazzini impegnati in una recita parrocchiale.
Così come altrettante considerazioni simili possono essere fatte per la “Crocifissione”, ad opera del cugino del Carracci, Annibale, in cui i personaggi raccolti ai piedi del Cristo appaiono assumere pose ed espressioni che sembrano teatrali ed abbastanza improbabili se viste di fronte alla scena del martirio e della morte in croce. Tutta la scena, pur costruita secondo il modello dottrinale, risulta anche qui ridotta al suo significato esteriore e circoscritta ai soli temi della sofferenza e della devozione, riducendone ed in parte distorcendone il contenuto originario.
L’eclettismo mostrato poi dallo stesso Annibale Carracci (1560-1609), capace di dedicarsi in seguito con maggior successo a temi “profani”, è da questo punto di vista testimonianza ulteriore dell’ormai evidente suo allontanamento dal “sacro”, che viene ad essere sostituito esplicitamente nella sua opera sia da un apprezzabile studio della quotidianità dai risvolti quasi grotteschi (il Mangiafagioli), come anche dal recupero di un classicismo pre-cristiano di carattere estetizzante, con il quale sembra voler aderire ad una maniera raffaellesca, esplorando temi mitologici sulla traccia già percorsa da Giulio Romano settant’anni prima (La galleria di Palazzo Farnese a Roma).
Di tutt’altro tenore appare l’opera di Caravaggio (Michelangelo Merisi 1571-1610), arrivato a Roma poco più che ventenne, che nel breve arco di quindici anni riesce a condensare in essa la ripresa della più alta tradizione pittorica recente rielaborandola in forme espressive del tutto inedite.
Partendo dall’esperienza dei modi “analitici” della pittura fiamminga Caravaggio affronta il tema fondamentale della natura con grande precisione, offrendone un’immagine certamente sintetica e di grande efficacia.
Rinunciando, se non rarissimamente, a raffigurare paesaggi, la cui esperienza sicuramente gli derivava dal conoscere la tradizione lombarda, la sua visione naturalistica si concentra soprattutto sui singoli oggetti e su decadimento e provvisorietà di ciò che è vivente.
Nei suoi primi quadri, eseguiti con tecnica magistrale e sapiente uso della luce, rappresenta appunto delle nature “morte”, in cui l’aspetto materiale di ciò che di naturale è fisicamente percepibile dai sensi mostra con evidenza la propria imperfezione e la tendenza a “corrompersi”, in vista di un progressivo quanto inevitabile disfacimento (La canestra di frutta).
Anche nelle figure umane da lui rappresentate, ricordiamo i due “Bacco” dei quali uno è più “sano” e l’altro più “malato”, assieme agli accuratissimi dettagli di anatomia (vere citazioni michelangiolesche) prevale il senso di precarietà fisica ed esistenziale, che sembra essere manifestazione di un probabile disagio interiore del pittore.
Ricordiamo anche, a tal proposito, di come Caravaggio rappresenti spesso sé stesso nei suoi quadri, applicando drammaticamente il proprio volto ai visi dei soggetti raffigurati.
Caravaggio affronta i temi sacri con disinvolto distacco, e, pur mettendo in gioco tutta la sua grande capacità di rappresentazione naturalistica, sembra insistere a voler trasformare quei soggetti in scene profane.
Si noti la fiasca dell’acqua appoggiata a terra, l’espressione di Giuseppe che regge lo spartito, e Maria che pare addormentata appoggiando la testa al Bambino con un braccio abbandonato ne “Il riposo nella fuga in Egitto”.
Persino l’angelo-musico, dalle ali scure, rappresentato di spalle, ha qui qualcosa di sensuale ed ambiguo, sia nell’aspetto quasi di cortigiano, che in quel suo atteggiamento un po’ tizianesco, forzatamente sbilanciato sul fianco sinistro.
Con il ciclo delle “Storie di S. Matteo”, per la chiesa di San Luigi dei Francesi, Caravaggio cambia improvvisamente registro espressivo, concentrando la luminosità sulle figure umane ed eliminando quasi completamente le scene sullo fondo, sostituendo queste ultime con campiture omogenee di colore molto scuro o quasi nero.
L’uso attento del luminismo, di derivazione tintorettiana, accentua ancora di più, in questi quadri, la drammaticità delle scene rappresentate.
La scelta dei personaggi raffigurati, che paiono tolti letteralmente dalla strada, sembra tuttavia non concedere al soggetto sacro lo spazio perché possa comparire alcun’idea di un possibile riscatto superiore. Ed alla conclamata asprezza di una condizione esistenziale precaria e costantemente minacciata, viene circoscritto un orizzonte esclusivamente materiale e terreno.
A maggior ragione, seguendo la linea di quest’orientamento, impressiona la sconcertante tendenza a distorcere anche i significati più tradizionali delle immagini evangeliche, su cui Caravaggio ritorna più volte nelle sue opere successive.
Si prenda per esempio la “Decollazione del Battista”, eseguito a Malta nel 1608, e si noti come il drammatico episodio della rinuncia allo Spirito (rappresentato dal Battista) da parte di Erode Antipa, che cede simbolicamente al ricatto orchestrato da Erodiade, si traduca, nella sua visione, in nient’altro che un brutale omicidio eseguito su commissione.
Ma è forse con “La morte della Vergine” che l’operazione, non sappiamo quanto consapevole, compiuta da Caravaggio, di rovesciamento del senso sacro delle immagini archetipiche della tradizione cristiana diviene più esplicita.
Qui Maria ha le sembianze di una giovane donna il cui tragico aspetto pare sia dovuto al fatto che Caravaggio prenda nella circostanza a modello una persona realmente morta di annegamento e ripescata dal fiume Tevere.
Agli effetti dell’annegamento si deve dunque il gonfiore del corpo, che è abbastanza evidente, così come lo è il drammatico abbandono degli arti e la disposizione scomposta dell’improbabile veste rossa.
Non sembra poi casuale l’assenza del tradizionale e rappresentativo Manto azzurro, utilizzato nell’iconografia cristiana come testimonianza del costante rapporto col Cielo che accompagna la madre del Cristo nel corso della sua esperienza terrena.
Come non lo è la presenza del grande drappo rosso, nella parte superiore del dipinto, che riprendendo il colore della veste indossata da Maria in una tonalità più accesa pare voler sancire in modo definitivo il carattere tutto terreno dell’episodio rappresentato, e negare al contempo l’essenza dalla duplice natura, umana e divina, del grande archetipo mariano.
Non fa meraviglia dunque che il quadro eseguito da Caravaggio venga rifiutato da chi avrebbe dovuto ospitarlo nella propria chiesa (i Carmelitani di S.Maria della Scala).
Come non fa meraviglia che Caravaggio, significativamente sostenuto all’epoca soltanto da una committenza in prevalenza colta ed elitaria, venga accusato a pochi anni dalla sua morte di esser stato autore di una pittura, certamente geniale e tecnicamente ammirevole, ma fondamentalmente esteriore, falsa ed ingannatoria. (4)
Il cosiddetto “caravaggismo”, l’effetto del successo avuto da Caravaggio presso alcuni pittori suoi contemporanei, dura quindi circa cinquant’anni, per poi essere superato e seguito da più di due secoli di oblio.
Saranno soltanto gli studi compiuti dal critico Roberto Longhi a partire dagli inizi del XX secolo a riportare progressivamente l’attenzione sul pittore lombardo, cui fino a quel momento venivano preferiti, anche dal punto di vista commerciale, altri esponenti del seicento italiano.
Si arriverà quindi ad sua definitiva “consacrazione” in epoca contemporanea con l’occasione offerta da una grande mostra, allestita a Milano dallo stesso Longhi, nel 1951.
La rivalutazione complessiva di Caravaggio, operata da parte della critica ed accettata poi unanimemente e trasversalmente, è forse di per sé il segnale di un cambiamento avvenuto in tempi recenti che va osservato con attenzione.
Un cambiamento che riguarda in generale il modo di intendere l’arte, per come questo si è determinato tra otto e novecento , e che comprende la disponibilità dimostrata dalle coscienze contemporanee di accettare come forme artistiche anche opere che si pongono in aperta antitesi con l’affermarsi di una positiva visione spirituale del mondo, soprattutto, e ciò è fondamentale, per quanto riguarda l’arte sacra.
Un fenomeno su cui converrebbe riflettere bene, anche per cercare di comprendere come sia potuto accadere che gran parte della produzione artistica si sia negli ultimi decenni allontanata non solo dal sacro, ma abbia anche cancellato i temi dell’umanità e della bellezza dall’oggetto della propria ricerca, senza che ciò abbia suscitato obiezioni ma riscuotendo viceversa il consenso della critica più accreditata.
Il seicento, secolo che si era aperto con il rogo in cui morì Giordano Bruno in Campo dei Fiori, è stato un secolo carico e contraddizioni e, per certi versi, denso di grandi ombre. Così come carichi d’ombra sono stati i quadri di Caravaggio e di coloro che lo hanno assunto come riferimento e modello.
A noi resta, se lo vogliamo, di poter guardare a questi fatti con il necessario distacco per comprenderne appieno il significato. E di cercare di capire quale sia il reale valore di molta critica d’arte quando questa non riesce a spiegare l’effettivo senso di certe opere, se non rimanendo deduttivamente all’interno di astruse teorie fondate su presupposti discutibili.
Nonostante l’attuale complessiva situazione di degrado e la confusione alimentata da interpretazioni manichee dell’arte non soltanto moderna, del suo ruolo e della sua storia, noi rimaniamo tuttavia fiduciosi. E confidiamo nel fatto che, allo stesso modo in cui un tempo essa comparve sulla terra, la bellezza dell’arte tornerà ancora per soccorrerci, e lo fara mostrandoci un volto umano e divino allo stesso tempo.
Sarà una bellezza umana perché non limitata ad imitare la natura ma impegnata a costruire qualcosa di più e di nuovo a partire da quella. E sarà una bellezza divina, perché testimonierà nei fatti ciò che di divino, nell’agire umano, sarà possibile, come già lo è stato, riconoscere.
NOTE:
1) Il “Giudizio finale” eseguito da Michelangelo nella Cappella Sistina corse seriamente il rischio di essere distrutto in diverse occasioni. Venne infine salvato, ma si ricorse comunque alla “ridipintura” di parti dell’affresco ed alla sua temporanea copertura in occasione di particolari celebrazioni, lasciandolo quindi, nel complesso, deperire con il tempo.
2) Significativo a questo proposito l’esito del concorso indetto per il completamento della basilica di San Pietro a Roma. Il progetto vincitore, opera del Maderno, prevedeva appunto l’aggiunta di una navata longitudinale che avrebbe snaturato l’originario impianto centrale, ideato dal Bramante e poi completato da Michelangelo con l’edificazione della cupola.
3) Qui non sono presenti altri livelli di interpretazione, più profonda, del significato spirituale dell’esistenza, che possano ad esempio rimandare al senso del destino umano e dei percorsi individuali, così come invece accadeva nell’arte rinascimentale e, come si è visto, anche in quella precedente. Si vedano a questo proposito soprattutto gli articoli:
4) Così si esprimeva il pittore spagnolo Vincent Carducho nel 1633 nel suo testo di critica pittorica intitolato “Dialogos de la pintura”, edito a Madrid, a proposito di Caravaggio: “Qualcuno ha mai dipinto, e con tanto successo, come questo mostro di genio e talento, quasi senza regole, senza teoria, senza apprendimento e meditazione? (…) Ho sentito un fanatico della nostra professione dire che l’apparizione di quest’uomo significava un presagio di rovina e fine della pittura, e come alla fine di questo mondo visibile l’Anticristo, fingendo di essere il vero Cristo con falsi e strani miracoli e azioni mostruose porterebbe con sé alla dannazione un grandissimo numero di persone commosse dalle sue opere che sembravano così ammirevoli (sebbene fossero di per sé ingannevoli, false e prive di verità o permanenza). “Così questo Anti-Michelangelo con la sua vistosa ed esteriore copia della natura, la sua ammirevole tecnica e vivacità è stato in grado di persuadere un così grande numero di persone di tutti i tipi che la sua è una buona pittura e che la sua teoria e pratica sono corrette, (…).”
L’immagine che ci siamo fatta del quindicesimo secolo come di una fase di fioritura artistica senza precedenti ha la sua rispondenza nella grande quantità di protagonisti che si sono avvicendati sulla scena culturale italiana in quel periodo, ciascuno con la sua peculiare forma di espressione individuale, ma tutti in qualche modo partecipi di un grande evento collettivo e corale, leggibile anche come chiaro segno di un importante momento di svolta che l’umanità stava attraversando.
La ricchezza e la varietà dei contributi che si sono visti nascere nel campo dell’arte e sviluppare nel corso del quattrocento, oltre a manifestarsi secondo il loro intrinseco valore, hanno purtuttavia costituito essi stessi un fertile terreno per la crescita di alcune particolari individualità, che in quel grande “coro” di espressioni artistiche hanno saputo distinguersi, al pari di voci soliste, sull’ampia e variegata scena del rinascimento italiano.
L’opera dei maestri maggiori non avrebbe, presumibilmente, potuto formarsi e distinguersi come ha fatto se non avesse avuto modo di appoggiarsi, per confrontarsi ed orientarsi, sulle tante e diverse esperienze artistiche che in quegli anni l’avevano preceduta.
È questo infatti un periodo storico in cui pare possibile che tutte le ricerche riescano a collegarsi ed a riformarsi le une dalle altre. Ed è Firenze, città d’arte per eccellenza, a confermarsi ancora, dopo quasi un secolo dal concorso per la porta nord del battistero di S.Giovanni, il crocevia dei percorsi più significativi.
È nella bottega di Andrea Verrocchio, pittore ma ancor più valido scultore, che Leonardo da Vinci (1452-1519) compie il suo apprendistato, entrando in contatto con altri esponenti del rinascimento fiorentino, tra cui spicca la presenza di Sandro Botticelli, pittore vicinissimo all’ambiente culturale mediceo.
Leonardo, pur essendo al corrente dei dibattiti filosofici che animavano il circolo fiorentino, accorda maggiormente le sue attitudini con la vita di bottega e mantiene le distanze da ricerche di tipo intellettualistico per dedicarsi alla sperimentazione.
I suoi strumenti principali sono il disegno e la pittura. Ed in entrambi la protagonista è sempre la luce.
A dispetto dell’idea corrente che tende ad accostare Leonardo alla figura dello scienziato in senso moderno, nata probabilmente dalla sua ostinata ricerca conoscitiva svolta nei campi più diversi, non è possibile riconoscere nelle sue opere il ricorso abituale a tecniche di rappresentazione matematico-scientifiche come lo è la prospettiva.
Se infatti si esclude dall’elenco il “Cenacolo”, in cui la visuale prospettica ha una funzione predominante, nelle sue maggiori opere egli ottiene l’effetto di “profondità” dello spazio quasi esclusivamente tramite la luminosità della scena ed il colore, scegliendo quindi di muoversi su di un terreno che non è quello che aveva accomunato in precedenza le ricerche del Brunelleschi, dell’Alberti e soprattutto, nella pittura, di Piero della Francesca.
La modalità di rappresentazione pittorica scelta da Leonardo non prevede infatti di affidare alla costruzione geometrica, determinata graficamente secondo un metodo oggettivo, il controllo dell’unità compositiva-spaziale, ma concentra prevalentemente l’attenzione del lavoro sul rendere visibile una speciale atmosfera, fatta di luce e colore, che riesca a permeare gli oggetti rappresentati per mostrarne i rapporti, le distanze, le relazioni reciproche e l’appartenenza ad una sola idea originaria e creatrice.
Il cosiddetto “sfumato” leonardesco altro non è che il modo per rendere reale questa atmosfera, che diventa essa stessa il principale elemento di unità nella composizione. Nei dipinti di Leonardo natura ed esseri umani sembrano appartenersi l’un l’altro come espressioni diverse e particolari di uno stesso “etere”, che alla stregua di una sottile forma di energia che tutto avvolge e vivifica, li rende materialmente visibili come parti di un “tutto”.
La formazione di Michelangelo Buonarroti (1475-1564), più giovane di trent’anni rispetto a Leonardo, avviene invece proprio nella cerchia intellettuale formatasi attorno a Lorenzo de’ Medici, il quale, intuendo le sue potenzialità, mette a disposizione del giovane artista la sua ricca collezione di opere classiche.
I personaggi che fanno parte della cerchia comprendono fra gli altri: Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Poliziano, Landino. Il gruppo, erede e continuatore di una tradizione di tipo iniziatico di origine pre-cristiana, fonda il proprio orizzonte culturale su di un solido umanesimo, sulla filosofia neo-platonica e sul gusto per la poesia.
Ma la strada scelta da Michelangelo per esprimere il suo genio, anche questa volta, non è la stessa, per esempio, del Botticelli, che pure frequentava lo stesso ambiente, ed invece che a lavorare sulle rappresentazioni allegoriche della mitologia classica essa lo conduce ad approfondire lo studio della figura umana.
I suoi riferimenti sono Giotto, Masaccio, Donatello e Giovanni Pisano, oltre che, ovviamente, la scultura greca e romana.
È evidente il suo desiderio di competere con l’antichità, di confrontarsi con la “sapienza” degli antichi, senza tuttavia limitarsi, come ad altri era accaduto, a ripercorre le tappe dell’imitazione della natura inseguendo la sua bellezza ed il segreto delle proporzioni. Egli non cerca l’equilibrio statico delle forme. Egli cerca la vita, animata dallo Spirito, dentro alla materia.
È questa sua particolare ricerca a spiegare il senso della spesso esuberante energia plastica delle sue opere, in cui alla saldezza dell’impianto compositivo si unisce sempre una tensione interna che sembra far vibrare le figure di una misteriosa forza interiore, che letteralmente le anima trasformando la minerale immobilità in un processo vitale.
Ancora diverso ci si presenta il percorso seguito da Raffaello Sanzio (1483-1520), che inizia dalla bottega paterna in ambiente urbinate e lo conduce a svolgere le prime attività presso il pittore Pietro Perugino. E di Perugino Raffaello diviene in certo modo continuatore, se lo si considera assumere il ruolo di massimo rappresentante di una corrente pittorica che, in ambito rinascimentale, si distingue sia rispetto al rigore “geometrizzante” caratteristico dell’opera di Piero della Francesca (conosciuto ad Urbino) che dalla figuratività un po’ astratta di Botticelli ripresa poi successivamente da Filippino Lippi.
Su questa linea Raffaello sviluppa la propria strumentazione artistica che, pur ricorrendo alla scansione prospettica degli spazi, da erede consapevole della tradizione urbinate, diluisce la concettualità e la “freddezza” di Piero in forme molto più accessibili che sembrano poter nascere con una maggior facilità di esecuzione.
Ma si tratta di una facilità solo apparente, visto che il lavoro di Raffaello, procedendo su più piani contemporaneamente, si fonda in realtà su di una prodigiosa capacità di controllo dei mezzi espressivi, passando dall’armonia tra le figure, agli accordi cromatici fino alla fusione dei soggetti con il paesaggio, per raggiungere un livello di sintesi e qualità delle opere elevatissimi.
I primi anni del 1500 vedono i tre maestri, Leonardo, Michelangelo e Raffaello, chi ritornare e chi presentarsi a Firenze, come se si trattasse di un ideale incontro tra ciò che di più alto offriva in quegli anni la capacità espressiva dell’arte rinascimentale.
Tutti loro, che avevano già raggiunto la piena maturità artistica, approfittano della circostanza per conoscere le rispettive opere, confrontarsi ed ampliare il campo delle personali esperienze.
Di fronte ai temi sacri ciascuno di essi offre interpretazioni artistiche particolari, svolte con quelle abilità che il proprio talento aveva nel frattempo maturato. E nessuno di loro trascura di trasmettere, in quelle interpretazioni, i messaggi più elevati, propri della tradizione del cristianesimo più profondo di cui, evidentemente, erano al corrente e si facevano attivi continuatori.
Così Leonardo, nel dipinto della Vergine col Bambino e S.Anna, di cui esiste anche uno studio precedente eseguito a matita, presenta in modo inconsueto una Maria tenuta in braccio dalla propria madre, nell’atto di rivolgersi al Bambino che gioca con l’Agnello.
Egli affronta in quel modo il grande tema della Coscienza e dell’Amore, che è centrale anche per la nostra epoca.
La Coscienza, che è sia umana che divina, è rappresentata da Maria, che si mostra responsabile verso la crescita dello Spirito-Amore (il Bambino) che a sua volta simbolicamente gioca con quello che rappresenta il suo destino di sacrificio (l’Agnello), necessario per la successiva crescita umana. La madre (S.Anna) rappresenta qui il Mondo Spirituale, da cui la Coscienza è stata generata, che osserva, protegge e regge la scena, sottolineando col proprio sorriso la positività ed il corretto svolgersi del progetto divino.
C’è poi Michelangelo, che nel cosiddetto “Tondo Doni”, rappresenta il soggetto tradizionale della Sacra Famiglia in modo quasi rivoluzionario, dipingendo una Maria che è vista come una giovinetta energica ed alle prese con un vivacissimo Bambino intento a giocare con i suoi capelli.
Il tema nascosto di cui parla Michelangelo è qui il cambiamento occorso alla storia umana segnato dal cristianesimo. Qui la venuta del Cristo, lo Spirito-Amore rappresentato dal Bambino, cambia il pensiero umano introducendo l’Amore (il Bambino tocca la testa alla madre), rendendolo finalmente vitale e generatore di nuova vita (si noti la diversa brillantezza dei colori tra primo piano e sfondo).
E segna quindi il distacco dal mondo antico, quello del pensiero soltanto razionale rappresentato dalla saggezza di Giuseppe (anziano con la barba), dal San Giovannino (scritturalmente definito l’ultimo profeta e maggiore tra i nati di donna…ma che non entra nel Regno), e dalle figure ignude in ultimo piano che ci parlano del mondo antico classico e pre-cristiano.
Anche Raffaello affronta nella sua opera, in modo profondo, il tema del pensiero. E lo fa, assieme ad altri svariati argomenti, nel meraviglioso ciclo di Madonne da lui dipinte.
Nella “Madonna del Cardellino” il Bambino tocca il volatile tenuto in mano dal San Giovannino “fecondando”, con l’Amore di cui è portatore, il pensiero antico (gli uccelli nell’arte sacra rappresentano normalmente i pensieri).
Con il piedino il Bimbo tocca invece il piede di Maria (La Coscienza umana) che sta studiando, sollecitandola con quel gesto a seguire il percorso (i propri passi, compiere azioni amorose) che conduce al regno del Padre.
L’incontro ideale di Firenze, fra i tre grandissimi maestri, non dura materialmente che un solo anno, dopo il quale ciascuno di essi riprende il proprio cammino per incontrare altre importanti occasioni in cui manifestare il proprio straordinario talento.
Dopo di loro le vicende artistiche hanno continuato il loro corso attraversando le epoche successive e più recenti, potendo contare su nuove e più ampie possibilità conoscitive. Eppure ciò che di questi artisti è giunto oggi fino a noi, anche se visto nel panorama dell’intera storia dell’arte, mantiene i caratteri dell’irripetibile e del miracoloso.
Essi rappresentano, in modi diversi, le forme di espressione più alta che ci si possa aspettare dall’attività artistica. E sono la testimonianza di un’arte vissuta come esperienza mai conclusa, che sceglie di indagare quali siano le forme più adatte per poter accogliere, trasmettere e rendere manifeste delle verità superiori nel mondo della materia. Di un’arte che è ricerca continua, e che pur nascendo dal particolare dell’esperienza quotidiana, contando sui doni ricevuti, si mette in grado di muoversi, con coscienza e buona volontà, in direzione dell’assoluto.
Credo che non possa sfuggire a nessuno come in Italia, a partire dal 1400 si sia assistito ad un’improvvisa fioritura artistica che per caratteristiche e dimensioni non sembra avere avuto precedenti nel corso della storia umana.
Si trattò indubbiamente di un fenomeno che, pur restando non del tutto spiegabile, aveva avuto una lunga preparazione, alimentandosi in quelle botteghe che fornirono le conoscenze e gli strumenti più adatti alla formazione dei giovani artisti.
Un fenomeno che ebbe i caratteri di una crescita collettiva, e che poté contare sulla guida di diversi protagonisti, convenuti in gran parte a Firenze, che trovarono poi nella famiglia Medici e nella sua corte un ambiente sufficientemente illuminato e disposto a promuovere concrete iniziative a favore dell’arte e del suo riconosciuto valore.
Essi seppero, ciascuno secondo il proprio talento, raccogliere l’eredità del passato per offrire in immagini al mondo la sintesi di ciò che si andava preparando e che avrebbe atteso l’umanità nei termini dell’acquisizione di un nuovo livello di coscienza di sé e dei nuovi compiti che la aspettavano.
I caratteri dell’umanesimo, cui ci si riferisce a proposito della cultura di questo periodo, si esemplificano nella figura di personaggi in grado di assumere su di sé la responsabilità di un ruolo capace, non limitandosi ad una singola disciplina, di produrre una visione unificante delle varie arti, ponendo al centro di esse l’uomo, con i propri strumenti ed il proprio sapere.
Personaggi che non ebbero timore di rivolgersi ancora all’antichità classica, da cui l’arte medievale si era allontanata, con l’obbiettivo di far rinascere in forme nuove (da cui l’espressione “rinascimento”) ciò che di più alto in quella cultura era stato prodotto.
Forse mai come in questo periodo lo spirito che animava le arti figurative si era avvicinato a quello dell’arte architettonica, ponendosi l’obbiettivo di giungere ad una forma di rappresentazione che tenesse conto degli oggetti da rappresentare e contemporaneamente dello spazio in cui questi si trovavano, e che pervenisse dunque ad un’interpretazione finalmente unitaria della realtà.
L’arte che l’aveva preceduto aveva sempre fatto riferimento a modelli di tipo simbolico-narrativo, in cui i singoli oggetti ed episodi venivano accostati tra loro per creare delle sequenze che “raccontassero” ciò che si intendeva comunicare, ed in cui lo spazio serviva da semplice contenitore, o fondale, privo di una propria caratterizzazione e di rapporti di continuità con ciò che in esso veniva rappresentato.
Con l’utilizzo della prospettiva, tecnica di rappresentazione grafica messa in pratica da Filippo Brunelleschi (1377-1446) e quindi teorizzata da Leon Battista Alberti (1404-1472) nel suo trattato “De Pictura”, l’arte del quattrocento intese appunto affrontare e risolvere questo tema: quello cioè di offrire una particolare visione della realtà che fosse riconducibile ad un criterio unificante, tale per cui gli oggetti e lo spazio in cui questi erano contenuti venissero rappresentati in base a regole visive e dimensionali oggettivamente riscontrabili.
Non è, in effetti, importante sapere se la tecnica prospettica, per come noi la conosciamo, fu “inventata” dal Brunelleschi o, come pare più probabile, venne recepita da qualche trattato di ottica di origine araba, resosi disponibile in Europa sul finire del XII secolo (1).
Ciò che più conta è che tale tecnica venne messa al servizio, a cominciare dall’opera di Brunelleschi, di una modalità di visione della realtà totalmente nuova, nella quale il singolo uomo poneva sé stesso al centro in qualità di interprete ed artefice della rappresentazione, portando con sé tutto il suo patrimonio culturale, disciplinare e figurativo che era stato in grado di affinare.
È stato fatto notare come la prospettiva “matematica”, che fu adottata dai maestri del quattrocento, non rispondesse appieno alle indicazioni provenienti dalla percezione psico-sensoriale, non tenendo conto delle deformazioni e delle curvature indotte verosimilmente dai processi fisiologici della vista.
Laddove invece l’arte antica si occupò, come dimostrano ad esempio gli accorgimenti adottati dai greci per la costruzione dei templi, di modificare le forme dei manufatti per ottenere un effetto visivo adeguato che tenesse in conto proprio tali deformazioni.
Allo stesso modo si è sostenuto che, nelle loro rappresentazioni, gli antichi artisti ricorressero ad una forma approssimativa di proiezione, detta “perspectiva naturalis” o “communis” che rendeva conto, in qualche modo, della curvatura o rotondità del piano di proiezione, immaginato simile alla conformazione della retina umana.
Partendo dunque dal considerare quella perspectiva naturalis, e la sua rispondenza ad un criterio a-dimensionale basato su una particolare modalità di interpretare ciò che effettivamente si vede, anche la nuova “perspectiva pingendi”, così come viene identificata in epoca rinascimentale da Piero della Francesca (1420-1492), è stata interpretata non come semplice sistema di rappresentazione (nel senso tecnico del termine), ma più propriamente come effettivo “momento stilistico”, e quindi compiutamente come “forma simbolica”, intendendo quest’ultima come modalità complessiva di rappresentazione di un contenuto ideale (2).
Ma quali potevano essere quei contenuti ideali (nel testo citato viene usato impropriamente il termine “spirituali”) cui i grandi maestri del rinascimento, ciascuno secondo il suo caratteristico tratto, fecero riferimento? E cosa intendeva l’Alberti quando scriveva che con la prospettiva l’intero quadro si trasformava in “una fenestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto” (3)?
In realtà, ciò che veniva riconosciuto e fatto “rinascere” rivolgendosi all’arte classica non era effettivamente limitato agli aspetti formali ed esteriori della rappresentazione artistica, ma aveva a che fare con ciò che di più profondo aveva riguardato la cosiddetta “imitazione della natura” e cioè lo studio approfondito delle proporzioni.
E quanto atteneva alla prospettiva non era che una parte di quel lavoro, che tendeva a riconoscere le leggi immutabili, di natura superiore, che precedono e reggono la mutevolezza delle forme sensibili partendo dalla loro stessa essenza.
La geometria, che veniva utilizzata con rigore nel disegno e nella costruzione di chiese e palazzi, così come avveniva per le composizioni pittoriche, era per gli artisti del quattrocento una scienza sacra a tutti gli effetti.
La geometria era, detto in altri termini, per quegli artisti, uno strumento per parlare dell’Assoluto.
Alla geometria era necessario ricorrere per dare nuovo valore etico a quello che si voleva trasmettere, ed a lei ci si doveva rivolgere per rappresentare ciò che era bello, giusto e vero.
Così la purezza degli spazi disegnati dal Brunelleschi poteva reggere e fare da cornice alla vita frenetica della Firenze mercantile tenuta in pugno dalla nascente borghesia, allo stesso modo in cui le arcate poste in prospettiva del “Banchetto di Erode” di Donatello (1386-1466) sovrastavano, rendendolo sopportabile, il martirio, già avvenuto, del Battista.
L’artista del rinascimento è colui che ha già vissuto nella propria anima, ed acquisito come propria, la precedente esperienza medievale, in cui ai soggetti sacri era assegnato il compito di guida ed aiuto al popolo che si apprestava a scoprire il valore profondo del cristianesimo rispetto alla storia evolutiva dell’umanità.
Esso aveva assistito alla nascita dello Spirito, che era stata rappresentata nelle Natività e nelle Maestà ad opera dei maestri più importanti, e si apprestava ora a scendere direttamente in campo, offrendo a ciascuno che lo avesse voluto la propria “prospettiva”, il proprio “punto di vista” da cui partire, con cui conoscere il mondo e trasformarlo usando per questo gli strumenti più adeguati al proprio tempo (4).
Cosa ci dice in fondo l’affresco della “Trinità” di Masaccio (1401-1428) in Santa Maria del Fiore, con la sua perfetta e classica volta a botte a cassettoni che amplifica la presenza protettrice del Creatore sul Cristo in croce, se non che la certezza del piano divino contiene, supera e dà un senso alle sofferenze terrene secondo un ordine superiore già stabilito?
I temi religiosi erano, in effetti, quasi gli stessi rispetto a quelli che nelle epoche precedenti venivano usati per decorare, su intonaco o pannelli, le pareti di chiese e di palazzi. Ed anche i simboli, alla cui qualità era affidata la forza comunicativa del messaggio destinato ad essere rivelato, e tutto il repertorio iconografico cristiano erano ancora vivi e presenti nella nuova arte del quattrocento.
Essi entrano tuttavia allora a far parte di un disegno più grande e più completo, che tende a rendere riconoscibile per loro un valore di universalità che prima era soltanto intuito.
Se prendiamo in esame tutta l’opera di Piero della Francesca, anch’egli autore di un importante e successivo trattato sulla prospettiva, possiamo assistere allo svolgersi di questo processo di trasformazione anche soltanto rimanendo all’interno della sua personale esperienza.
Il messaggio contenuto nell’immagine simbolico-archetipica del Manto di Maria, rappresentato nel “polittico della Misericordia” è destinato infatti a comparire di nuovo nella cosiddetta “Pala di Brera” del 1475, che è considerata la sua ultima opera conosciuta.
Qui Maria si trova al centro di uno spazio sacro, verosimilmente nel transetto di una basilica, ed attorno a Lei il semicerchio dei santi riprende, con una curvatura più larga, la cavità dell’abside retrostante. Il grande ambiente è suddiviso gerarchicamente e le figure umane partecipano con statuaria presenza alla sua definizione.
Le forme architettoniche, mutuate dalla tradizione classica, seguono con precisione il disegno dettato dalla proiezione prospettica e costruiscono attorno alla figura centrale di Maria con il Bambino in grembo lo spazio regale di una nuova Maestà.
Ma si tratta ora di una Maestà capace di accogliere e di proteggere, non più soltanto sotto al proprio Manto, come la tradizione medievale aveva contribuito a rivelare, ma ponendosi al centro di uno spazio ampio ed unitario, che è al tempo stesso definito nei suoi contorni e parte di una realtà infinita, misurato e costruito dall’uomo-artista, che adesso si presenta come capace e consapevole protagonista del proprio tempo.
NOTE:
1) Il trattato “Libro d’ottica” del matematico arabo Alhazen (965-1039) venne tradotto prima in latino e quindi in volgare entro la fine del XIV secolo. Fonte: Treccani.it
2) Mi riferisco qui al noto saggio di Erwin Panofsky, “La prospettiva come forma simbolica”, uscito nel 1927 ed edito in Italia con Feltrinelli, a Milano, a partire dal 1961.