Ci capita spesso di non essere soddisfatti del nostro agire. Di pentirci di qualche cosa che abbiamo appena fatto.
Sia che si tratti di una “sfuriata” con un collega di lavoro oppure del freddo disinteresse manifestato nei confronti di un amico, tutte le volte proviamo a dirci che non dovrà più capitare, anche se, in fondo, qualcosa ci ricorda che “a conti fatti avevamo ragione noi…”.
Ma perché accade ciò? Perché quando proviamo a “lavorare” su noi stessi non riusciamo ad andare più in là di un parziale pentimento, per aver fatto qualcosa che non siamo riusciti ad evitare, perché la spinta a farlo è stata “più forte di noi”?
Ed è proprio vero che noi siamo totalmente responsabili delle nostre cattive azioni?
Il problema è che siamo talmente innamorati di noi stessi da persuaderci di essere sempre protagonisti di quello che facciamo, sia che si tratti di comportamenti virtuosi che, in particolare, del loro contrario.
Sedotti dall’idea dell’unicità e dell’integrità del nostro essere, raramente ci domandiamo che cosa accada realmente nella nostra anima e chi sia effettivamente responsabile dei nostri comportamenti, soprattutto dei più censurabili.
E tante volte non “piaciamo” a noi stessi e ce ne rammarichiamo, finendo tuttavia per accettare la nostra condizione “imperfetta” addebitando all’arbitrarietà del nostro carattere quanto di negativo riconosciamo in noi, e che rimane al di fuori delle nostre capacità di controllo.
Ma le cose, se guardate con più attenzione, appaiono in modo differente da così come sembra, poiché la realtà è, in effetti, parecchio più complessa di quanto noi inizialmente possiamo immaginare. E quanto di negativo è presente in noi e fuori di noi non ha nulla di arbitrario ma interpreta un preciso ruolo all’interno del grande progetto evolutivo che ci coinvolge tutti.
Alla base di ogni percorso di crescita spirituale vi è infatti la consapevolezza dell’evoluzione in corso. Un’evoluzione che coinvolge tutti gli esseri, dall’inizio “dei tempi”, e che procede attraverso il raggiungimento di stati di coscienza sempre più elevati, secondo un modello universale predisposto da un Dio creatore che ne fu l’artefice.
Ed il quadro completo della realtà, con cui ci si inizia a misurare, non si limita a quanto rappresentato dalla dimensione fisica, ma comprende esseri e gerarchie non percepibili dall’occhio sensibile di cui si possono iniziare a cogliere presenze e manifestazioni nel mondo esteriore ed, a maggior ragione, nel nostro personale mondo interiore.
Il male del resto, per come lo conosciamo, non è sempre stato presente nella storia dell’umanità (il mito ci parla a questo proposito di una remota “età dell’oro” in cui esso non esisteva), ed arriverà un momento in cui non sarà più necessario e se ne dovrà andare.
Il male è intervenuto nella storia dell’uomo nel momento in cui è diventato indispensabile alla sua crescita. Quando è diventato importante mostrare agli uomini le loro debolezze e le sofferenze che ne derivavano, ed indurli a costruire in loro quelle forze che servivano a diventare esseri più completi ed a far crescere in loro lo Spirito.
In questo senso è possibile parlare di un’utilità del male: il male si può considerare utile al bene quando se ne riconosce il ruolo positivo in termini evolutivi. E si comprende anche come la coscienza dell’umanità possa crescere (ed in effetti è cresciuta) anche grazie ed al costo di grandissime sofferenze che gli uomini hanno saputo attraversare.
Il male è dunque presente e si manifesta con evidenza nel mondo esterno a noi, ma lo è altrettanto nella nostra interiorità, ove alberga in modo nascosto, rendendosi tuttavia riconoscibile agli occhi della nostra coscienza.
E non è necessario uno sguardo chiaroveggente per rendersene conto, ma è sufficiente osservare le manifestazioni del suo operare, che mostrano caratteristiche precise e collegate con la realtà e le necessità su cui intervengono.
Lev Tolstoj, che è stato un grande indagatore della realtà e dell’anima umana, ci offre una precisa immagine di queste forze contrapposte che agiscono nell’interiorità umana quando descrive il personaggio di Aleksjej Aleksandrovic’ Karenin, uno dei protagonisti di un suo romanzo fra i più noti:
“Ma quanto più tempo passava, tanto più chiaramente egli vedeva che, per naturale che fosse per lui quella situazione, non gli avrebbero permesso di rimanervi. Sentiva che, oltre alla felice forza spirituale che guidava la sua anima, c’era un’altra forza, volgare, altrettanto o ancora più potente, che guidava la sua vita, e questa forza non gli avrebbe dato quella umile calma che desiderava”. (1)
Da un punto di vista spirituale ciascuno di noi, allo stesso modo in cui deve al proprio angelo custode intuizioni ed incoraggiamenti che lo inducono ad azioni positive, così deve al proprio anti-angelo quei comportamenti e quei pensieri che normalmente considera derivare dai propri peggiori difetti.
E poiché, contrariamente a quanto comunemente si pensi, noi non siamo soli, ma continuamente circondati da altri esseri, allora così come noi non siamo il nostro angelo, non siamo neppure il nostro anti-angelo, che, viceversa, impersona quel particolare essere, dotato di intelligenza ed individualità autonome, che, in ambienti iniziatici, viene comunemente indicato come il nostro doppio.
Il doppio ci segue sempre, fin da quando nasciamo, e non è possibile “liberarsi” di lui ma soltanto cercare di controllarlo, di riconoscerne l’azione, nei nostri pensieri, sentimenti e volontà, e cercare di circoscriverne gli effetti.
Noi dobbiamo a lui il manifestarsi dei nostri peggiori difetti e sta nella nostra responsabilità e nel lavoro della nostra coscienza togliergli quello spazio interiore di cui costantemente cerca di approfittare per allontanarci dal nostro percorso di crescita.
Il doppio non è presente oggi sul piano “fisico” ma solo su quelli eterico ed astrale, e non è dunque visibile ad uno sguardo soltanto “sensibile” (legato ai sensi fisici).
È possibile tuttavia “sentirne” la presenza e riconoscere gli effetti della sua azione su di noi, che può esser vissuta in un certo modo come “estranea”. E si può averne una più precisa immagine quando, a seguito di un efficace lavoro interiore si raggiunge uno stato di coscienza più elevato.
Ecco la descrizione che ne fa Georges Bernanos a proposito delle vicende del reverendo Donissan, protagonista del suo primo romanzo:
“Nello stesso istante, la cosa che gli stava davanti scomparve, o piuttosto le linee e i contorni si confusero in una misteriosa vibrazione, come i raggi di una ruota lanciata a tutta velocità. Poi lentamente quei tratti ripresero forma.
E il vicario di Campagne vide improvvisamente di fronte a sé il suo doppio, una somiglianza così perfetta, così sottile che il confronto si sarebbe potuto fare non tanto con l’immagine riflessa in uno specchio quanto con la personale, unica e profonda idea che ognuno ha di sé stesso.
(…) Per un attimo rimasero così, faccia a faccia. L’illusione era troppo sottile perché il reverendo Donissan provasse un vero e proprio terrore. Per quanti sforzi facesse, non gli era del tutto possibile distinguersi dal suo doppio, anche se conservava dimezzato il sentimento della propria unità.” (2)
Esistono molti altri esempi in letteratura e nelle arti figurative in cui il doppio ci viene mostrato nella sua azione in rapporto all’uomo. Un’azione che abbiamo visto essere (per l’appunto) duplice: ad un tempo ostacolatrice e di aiuto alla crescita umana, ed uno dei più efficaci esempi sembra essere quello che ne dà Tolkien nella saga de “Il signore degli anelli”.
Quando presenta il personaggio di Gollum, Tolkien mette chiaramente in evidenza questa modalità, propria del doppio, di agire sulle persone “sdoppiandone” letteralmente le intenzioni ed i comportamenti:
“Gollum parlava da solo. Smeagol discuteva con un immaginario interlocutore che si serviva della sua medesima voce, facendola però squittire e sibilare. Una luce pallida ed una luce verde si alternavano nei suoi occhi mentre parlava.” (3)
Tolkien tuttavia non si limita a presentarci il doppio nelle sue caratteristiche, nel suo perseguire comportamenti riprovevoli suscitati dal desiderio (nel caso di Gollum) del possesso-servitù dell’anello.
Il doppio vive, in effetti, in funzione dell’egoismo e si mantiene fedele fino all’ultimo a tale dettato.
Ma lo fa al prezzo del proprio sacrificio, compiuto (cadendo nel vulcano) per il bene di tutti, da protagonista inconsapevole di un disegno superiore.
Ecco perché il sentimento, carico di consapevolezza, che esprimerà Frodo nei suoi confronti non sarà quello della semplice condanna, ma quello della compassione e della gratitudine, per il ruolo positivo che, suo malgrado, il male (rappresentato da Gollum), nei confronti del destino umano, è tenuto da sempre ad interpretare:
“Non ho nessuna pietà per Gollum. Merita la morte. Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E alcuni che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze.” (…)
“No, non ti uccideremo” disse Frodo. “Ma nemmeno ti lasceremo libero. Sei un covo di malvagità e di malizia. Gollum.
Sarai costretto a venire con noi affinché ti possiamo sorvegliare, tutto qui. Ma dovrai fare tutto quanto è in tuo potere per aiutarci: i favori vanno ricambiati.” (4)
NOTE:
1) in: Lev Tolstoj, “Anna Karenina”.
2) Georges Bernanos, “Sotto il sole di Satana”, Ed. S.Paolo, Torino 2010.
3) J.R.R. Tolkien, “Il signore degli anelli”, Bompiani, Milano, 2000.
4) J.R.R. Tolkien, ibid.
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