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Leggere l’Otello di Shakespeare, o anche soltanto assistere ad una sua fedele rappresentazione, può diventare un’esperienza del tutto particolare.
Quello che infatti colpisce. Ciò che dà a questa tragedia, tra le più conosciute di Shakespeare, il suo carattere distintivo è l’immediato coinvolgimento emotivo cui, fin dai primi passaggi, non è possibile sottrarsi e che accompagna lo spettatore, attraverso momenti anche di elevata tensione, fino al termine della vicenda.
Si tratta per l’appunto di una storia “appassionante”, proprio perché essa affronta il tema delle passioni umane. Una storia che ci parla di quelle forze poderose che stanno (tuttora) alle spalle dei nostri pensieri e delle nostre azioni e che dominano, spesso incontrastate, la scena della nostra anima.
Qui esse vengono fatte rivivere emozionalmente ed in profondità allo spettatore, che, oltre a sperimentarle, ha però anche la possibilità di osservarle dal “di fuori”, e di riconoscerle, in questo modo, direttamente nella loro essenza.
Ci siamo ormai abituati a considerare le tragedie di Shakespeare come altrettante “storie dell’anima”. Come occasioni, cioè, in cui alle varie componenti dell’interiorità umana viene attribuito un ruolo per essere poi interpretate ciascuna da un diverso personaggio, in modo che ne vengano mostrate appieno le caratteristiche. Ed in cui, nelle diverse situazioni che si creano, viene illustrato il processo di crescita dell’essere umano nel suo insieme, visto nel corso della sua (lunghissima) storia evolutiva. (2)
Così anche nell’Otello, Shakespeare continua in realtà a parlare di “noi”, della nostra crescita come esseri umani, nel corso della quale riscopriamo ed impariamo a distinguere, tra difficoltà sempre diverse, le nostre caratteristiche più elevate, che sono, realmente, di origine divina.
Ma lo fa, come si diceva, secondo una particolare angolazione, facendo in modo cioè che le passioni umane parlino, in un certo senso, di se stesse.
L’anima umana è qui rappresentata dalla Repubblica di Venezia, amministrata dal Doge, con l’aiuto del senato, che ne rappresenta lo Spirito.
Le sorti della Repubblica sono minacciate dai Turchi, in procinto di attaccare il presidio di Cipro, e si rende necessario l’apporto di un valente generale, di provata esperienza, interpretato dal moro Otello.
Ma quello che si viene ben presto a sapere è che la minaccia esterna rappresentata dalla flotta turca si dissolve senza colpo ferire, annientata da una provvidenziale tempesta, e che i veri problemi che porteranno all’esito tragico della trama crescono e si alimentano direttamente all’interno dello stato veneziano e della sua organizzazione operativa.
Sarà lo stesso Otello a riconoscere ad un certo punto come: “contro noi stessi facciamo ciò che il cielo ha impedito agli ottomani”, proprio mentre cerca di sedare una rissa scoppiata tra i suoi nel corpo di guardia del presidio veneziano (3).
L’attenzione si sposta dunque all’interno “delle mura”, mostrando come la vita dell’anima risulti per lo più in balìa di tempeste interiori, di cui le minacce esterne costituiscono spesso soltanto la preparazione. E come diventi quindi necessario mettere bene a fuoco i ruoli e le responsabilità di chi con queste tempeste ha direttamente a che fare e che deve in prima persona occuparsi del governo della “nave”.
Otello rappresenta in effetti l’io ordinario, colui che ha gli strumenti operativi, maturati con l’esperienza, per agire su mandato del Doge (che rappresenta lo spirito o l’io superiore).
Un io ordinario che si rivela però non ancora pronto a sostenere con autonomia le responsabilità di governo perché carente soprattutto dal punto di vista morale (il colore della pelle si riferisce alla qualità dell’anima, che risulta essere non sufficientemente purificata e dunque gravemente soggetta all’impeto delle passioni).
Ma ecco come si esprime Ludovico a questo proposito, in rappresentanza del Doge, nel corso della sua visita a Cipro di fronte ai comportamenti dissennati di Otello:
“E questo sarebbe il valoroso Moro, che il nostro senato considera un uomo straordinario? E incrollabile davanti alle passioni? E dove sono le salde virtù che non si lasciano scalfire dai dardi della sorte o scuotere dai colpi della sventura?” (4).
Otello ha tuttavia, nel corso della vicenda, un’occasione di crescita, che si manifesta nell’incontro con Desdemona, figlia di un membro del senato, che rappresenta la parte femminile più elevata dell’anima umana.
Desdemona è attratta dalla storia di Otello, dal suo difficile percorso “esperienziale” che questi ha intrapreso per mettersi al servizio dell’anima (Venezia), e per questo accetta di stargli accanto e di servirlo, chiamandolo “mio signore” (my lord) ed allontanandosi dal padre rompendo il legame con il proprio passato.
Desdemona rappresenta la coscienza, che accetta di mettersi al servizio degli altri per il conseguimento di un superiore bene comune. Per questo prenderà le difese di Cassio, il luogotenente e successore designato di Otello al governo di Cipro, che a sua volta rappresenta il dopo-Otello, ossia il passaggio di livello dell’io ordinario ad uno stato di coscienza più elevato.
Significativo ed esemplare è, a questo proposito, il tema della tempesta marittima che anticipa e prefigura quella tempesta dell’anima in cui “naufragherà” Otello, nella quale Cassio si salva per primo dopo aver assistito alla distruzione della flotta turca, e da cui anche Desdemona esce indenne:
“La tempesta, le alte onde, i venti che soffiano urlando,
gli scogli, i banchi di sabbia traditori in agguato
nell’acqua per far incagliare la carena
inconsapevole del pericolo, come se avessero
il sentimento della bellezza, hanno rinunciato
alla loro natura implacabile per lasciar passare
salva la divina Desdemona.” (5)
Così spiega Cassio a Montano, non prima di aver espresso la propria preoccupazione circa il destino di Otello che giunge in porto per ultimo:
“Che il cielo lo protegga dal vento e dalle acque
perché io l’ho perduto su un mare insidioso.” (6)
Ma l’inadeguatezza di Otello ad interpretare un ruolo di maggiore responsabilità nei confronti della Repubblica, che lo obbligherà, suo malgrado, a riconoscere di aver esaurito il proprio compito (7), ed a lasciare il campo alla successione da parte di Cassio, emergerà in tutta la sua evidenza soltanto a causa (o grazie) all’intervento del suo alfiere Iago, astuto ed onnipresente artefice di tutte le trame con cui la tragedia viene, fino all’ultimo, alimentata.
Iago ci viene presentato come “una canaglia”, il “villain” della tradizione teatrale anglosassone, ed è il personaggio chiave di tutta la vicenda. È lui che inventa, letteralmente, l’idea del tradimento di Desdemona nei confronti di Otello, che di per sé è totalmente priva di fondamento. Ed è lui che fa in modo che questa idea si insinui progressivamente, alla stregua di un lento veleno, tra i pensieri di Otello.
Iago non è un personaggio come gli altri. “Io non sono quello che sono [o che sembro essere n.d.r.]” dice di se stesso (8), ammettendo soltanto di agire per un suo “scopo particolare” che probabilmente non conosce del tutto neppure lui (9).
Interpretabile dal punto di vista spirituale come un doppio, egli rappresenta quel particolare essere impegnato, in opposizione allo Spirito, ad ostacolare in ogni modo qualsiasi forma di crescita umana (10). Qui Shakespeare offre di questo essere una descrizione esemplare e di grande precisione, evidenziandone la grande intelligenza, sempre accompagnata da una aperta immoralità.
Iago è in grado di dissimulare abilmente le proprie reali intenzioni, ingannando agevolmente i personaggi con cui ha a che fare. Li inganna tutti, ad eccezione di Desdemona, che rappresentando la coscienza più elevata, fin dalle prime battute lo riconosce per come egli è in realtà, avvertendo Cassio: “Non vi pare uno sputasentenze dissacrante e libertino?” (11).
Vero compito di Iago è dunque quello di ostacolare la crescita dell’io umano (Otello) nella direzione della linea evolutiva (la successione di Cassio) e pertanto egli cerca di colpire entrambi con l’intento di far fallire il passaggio di consegne, così come questo era stato pianificato dallo Spirito (il senato della Repubblica).
Iago, da grande conoscitore dell’anima umana [come riconosciuto dallo stesso Otello (12)], per ottenere il suo scopo colpisce nei punti più deboli, mettendo drammaticamente in luce i limiti di un’anima non ancora cresciuta a sufficienza. Un’anima ancora non pronta, perché ancora impegnata a compiacere se stessa, che lascia spazio al manifestarsi di sentimenti incontrollati che hanno le sembianze di veri e propri mostri:
“Guardatevi dalla gelosia, signore.
È un mostro dagli occhi verdi, che prima si diverte
a giocare col cibo di cui si nutre.” (13)
Così spiega Iago ad un attonito Otello che ancora non si è reso conto del dramma cui sta andando incontro e che replica:
“Credi tu che potrei ridurmi a vivere tormentato dalla gelosia,
inseguendo i mutamenti della luna, sempre con nuovi sospetti?” (14)
E cos’altro è la gelosia se non in fondo un sentimento che nasce per la (presunta) sottrazione di un bene affettivo e che ferisce l’orgoglio di un’anima ancora impegnata ad amare soltanto se stessa?
“O dolce Inghilterra (…)
L’orgoglio è la rovina del Paese” canta Iago mentre invita i compagni a bere vino. (15)
“Dite pure che sono un assassino,
ma che ho ucciso per difendere il mio onore.
Non mi ha spinto l’odio ad agire, ma l’onore.” dice Otello al culmine della tragedia (16),
ancora non comprendendo le ragioni della propria debolezza, che lo ha costretto a strangolare Desdemona sul letto della loro “cercata” unione, allo stesso modo in cui le passioni incontrollate offendono e soffocano la coscienza umana.
E la tragedia termina, non prima di aver in qualche modo “riacceso” diverse eco di esperienze passate, difficili e dolorose, che ancora vibrano dentro di noi.
Ma il dolore, ancora una volta, è servito. E quello che non avrebbe potuto fare Otello, per il bene della Repubblica, lo compirà Cassio, ferito ma confermato nel suo incarico di governatore di Cipro dal senato veneziano.
A Cassio viene anche affidata la responsabilità della prigionia di Iago che, una volta scoperto verrà d’ora in poi tenuto sotto stretta sorveglianza senza più permettergli di agire indisturbato in antitesi con le intenzioni del governo.
Coerentemente al suo vero ruolo, Iago riconosce come terminato il proprio compito e sospende ogni attività, in osservazione e rispetto di fronte all’affermarsi di un bene a lui superiore.
Smascherato pubblicamente non chiede perdono, non si pente e non dà spiegazioni del suo operato. Resta in silenzio, dovendo suo malgrado riconoscersi protagonista involontario sulla scena grandiosa della crescita dell’anima umana:
“Non chiedetemi nulla. Quello che sapete, sapete!
Da questo momento non dirò più una parola.” (17)
NOTE:
1) “Il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro;
ma chi piange per un dolore vano ruba qualcosa a se stesso.”
2) Si vedano a questo proposito i precedenti articoli del sito a questo correlati:
“C’E` DEL MARCIO IN DANIMARCA” – Il Principe Amleto e le vicende dell’anima umana.
ROMEO E GIULIETTA – La storia del maschile e del femminile dentro di noi.
3) Shakespeare, “Otello”, II–III.
4) Ibid. IV-I.
5) “Tempests themselves, high seas, and howling winds
The gutter’d rocks, and congregated sands,
Traitors ensteep’d to clog the guiltless keel,
As having sense of beauty, do omit
their mortal natures, letting go safely by
The divine Desdemona.” – Ibid. II-I.
6) “(…) O! Let the heavens
Give him defence against the elements,
For I have lost him on a dangerous sea.” – Ibid. II-I.
7) ”Sono alla fine del mio viaggio, vicino alla meta, al faro del mio ultimo porto.” – Ibid. V-II.
8) ”I am not what I am” – Ibid. I-I.
9) ”Heaven is my judge, not I for love and duty,
But seeming so, for my peculiar end” – Ibid. I-I.
10) Per approfondire si veda anche il seguente articolo del sito:
NOI E IL NOSTRO DOPPIO – L’utilità nascosta del nostro lato oscuro.
11) “How say you Cassio? Is he not a a most profane
and liberal counsellor?” Ibid. II-I.
12) “This fellow’s of exceeding honesty,
And knows all qualities, with learned spirit,
Of human dealings;” Ibid. III-III.
13) Ibid. III-III.
14) Ibid. III-III.
15) Ibid. II-III.
16) Ibid. V-II.
17) “Demand me nothing: what you know, you know:
From this time forth I never will speak word.” – Ibid. V-II.
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