Sembra, a volte, seguendo quello che ci riferiscono i principali media, di assistere ad una gara a chi la “spara più grossa”, un po’ come ci succedeva da ragazzini, quando si stava seduti a chiaccherare sulle panchine del parco fra una sfida a nascondino ed una partita a pallone.
È soltanto di pochi giorni fa l’ultima esternazione di Elon Musk, il magnate australiano noto al grande pubblico come produttore di automobili elettriche ed organizzatore di missioni spaziali, secondo cui la superintelligenza, ovvero l’intelligenza artificiale più intelligente dell’uomo, diventerà realtà fra cinque o sei anni, e sarà “a favore dell’umanità”, sempreché, beninteso, si tratti di quella gestita da lui.
Certo, occorre riconoscere che, da quello che si è visto finora, un tizio come Musk le cose le fa davvero, sia per capacità propria sia perché, in qualche modo, qualcuno gliele lascia fare… ma in questo caso, vista la portata dell’esternazione, si tratta innanzitutto di capire se “ci è” o, molto più probabilmente, “ci fa”, prendendoci ancora una volta tutti per il naso.
Per prima cosa, se si parla di intelligenza riferendosi a delle macchine, occorre capire cosa si intende per intelligenza.
Già, perchè normalmente l’intelligenza (dal latino intelligere) è dote riferita alla capacità di capire, che è caratteristica degli esseri viventi, e non certo delle macchine, per quanto sofisticate queste possano essere.
Il capire le situazioni è una necessità legata al vivere. Per questo sono gli esseri viventi che devono capire ciò che accade intorno a loro, per orientarsi ed agire in modo conseguente dopo aver preso la decisione più opportuna.
Un essere intelligente è potenzialmente in grado di agire in autonomia. Deve essere quindi in grado di prendere decisioni autonome, non necessariamente conformi a schemi predefiniti o che scaturiscono da conseguenze logiche.
Un essere davvero intelligente è in grado di decidere cosa fare avendo fatte proprie le esperienze passate, avendo davanti a sé un’idea del proprio futuro ed essendo capace di valutare se quello che sta per fare sia, o meno, un bene per sé e per gli altri.
È una macchina in grado di fare questo? Mi pare legittimo dubitarne.
Il problema principale di queste visioni meccanicistico-materialiste, che prefigurano il prevalere delle macchine sull’uomo, auspicando come possibile via d’uscita evolutiva l’integrazione fisica tra uomo e macchina è che sono mancanti della maggior parte delle spiegazioni riferite al mistero dell’esistenza.
Il ritenere che ciò che è effettivamente esistente sia solamente quello che è fisicamente visibile e tangibile è infatti di per sé un problema, perchè determina la costruzione di un quadro esplicativo, della vita e del mondo, mancante, e dunque deficiente (dal latino deficere = essere in difetto) rispetto alla sua parte essenziale.
Le più recenti esperienze in campo scientifico, condotte nel tentativo di dotare i sistemi elettronici digitali di capacità di apprendimento, hanno preso le mosse dallo studio fisiologico del cervello per approdare alla realizzazione delle cosiddette “reti neurali artificiali”.
Tali strutture, seppur grandemente semplificate, sono simili alle reti neurali biologiche e permettono di mettere in atto attività di elaborazione e riconoscimento di schemi simbolici anche molto complessi.
La potenza di calcolo oggi disponibile permette l’eleborazione di enormi quantità di dati memorizzati in tempi estremamente brevi, trovando possibilità applicative efficaci nei campi della finanza (in ambito prevalentemente previsionale), del riconoscimento di suoni ed immagini, nelle simulazioni di sistemi biologici e soprattutto, sollevando relativamente a questo settore inquietanti interrogativi, nella diagnostica medica.
Ma nonostante gli “incoraggianti”, per quanto circostanziati, successi rispetto alla capacità analitica e di confronto dei dati, che conduce ad una progressiva capacità di generalizzazione più efficace dei risultati, si vede dalla strada intrapresa dalla ricerca in questo campo che l’idea di fondo ha sempre la stessa origine: il cervello fisico viene inteso come meccanismo bastante a spiegare i processi decisionali e di pensiero dell’essere umano.
Ciò che, in realtà, manca alla macchina, e che si ritiene erroneamente che possa emergere soltanto dal cervello, come entità prodotta magicamente in un circuito percorso da impulsi elettrici, è la coscienza.
Una coscienza effettiva e vivente, che nulla ha a che vedere con quella funzione immaginata gestibile come un qualsiasi software, attraverso cui dotare, prima o poi, computers e robot di una pretesa forma di consapevolezza e capacità decisionale.
Chi sa qualcosa di spiritualità riconosce la coscienza come la parte più elevata dell’anima, proveniente dalle profondità della storia umana, e destinata ad elevarsi, assieme allo spirito, al termine del percorso di crescita e del ciclo reincarnatorio di tutti gli esseri.
È la coscienza umana, maturata nel corso di un lunghissimo cammino esperienziale, colei che ci guida nel prendere le decisioni, distinguendo ciò che è bene da ciò che non lo è, e facendo spazio a capacità ispirative ed intuitive che rendono conto del nostro rapporto, anch’esso in crescita, con le dimensioni superiori delle gerarchie celesti.
Federico Faggin, già inventore ed imprenditore di successo nel campo della progettazione dei computer, mosso dall’esigenza di un personale chiarimento sul senso della propria esperienza di vita ha affrontato negli ultimi anni il tema del rapporto-confronto tra uomo e macchina, arrivando ad individuare appunto nella questione della coscienza l’aspetto centrale del problema.
Riportiamo in chiusura un suo contributo tratto da una conferenza dal titolo “La differenza fondamentale tra intelligenza umana e intelligenza artificiale”, tenuta a Santiago del Cile il 21 gennaio del 2016.
« Come sarebbe la nostra vita se non sentissimo nulla? Se non provassimo l’amore, la gioia, l’entusiasmo, il senso della bellezza e, perché no, anche il dolore? Una macchina è uno zombi che passa attraverso una successione di movimenti meccanici senza sentimenti e comprensione. Non c’è vita interiore in una macchina: è tutta esteriorità. In un organismo vivente anche il mondo esterno è portato “dentro”, per così dire, per dargli un significato. Ed è la coscienza che dà significato alla vita.
L’idea che i computer classici possano diventare più intelligenti degli esseri umani è, in realtà, una fantasia pericolosa. Pericolosa perché se l’accettiamo, ci limiteremo a esprimere solo una piccolissima frazione di ciò che siamo realmente. Quest’idea ci toglie potere, libertà e soprattutto umanità: qualità che appartengono alla nostra coscienza, e non alla macchina che ci viene detto che siamo. » (1)
NOTE :
1) In : Federico Faggin, “Silicio”, Mondadori, Milano, 2019 (2023). Pag 323.
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