Si possono dire tante cose sui comportamenti e le iniziative prese dai personaggi noti al grande pubblico in campo culturale, e, sicuramente, anche le critiche a loro rivolte non possono e non debbono mancare perché il significato e l’interesse di tali iniziative appaiano nella loro interezza.
Tuttavia, di ciò che sta facendo l’ormai ottantaduenne Riccardo Muti non possiamo che parlar bene, vista soprattutto la situazione di degrado in cui versa la cultura, ed in particolare la musica, nel nostro tribolato paese, e non solo in quello.
Al termine di una prestigiosa carriera da direttore d’orchestra, Muti si occupa, da diversi anni, di promuovere l’educazione musicale dei giovani attraverso una serie di importanti iniziative.
Nel 2004 ha fondato l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, e nel 2015 l’Accademia dell’Opera Italiana di cui lo stesso Muti dice esser stata creata “per insegnare ai giovani musicisti ciò che ha imparato dai suoi grandi maestri, lungo una linea ideale che lo collega a Giuseppe Verdi, attraverso Arturo Toscanini e al proprio Maestro Antonino Votto.” (1)
Il lavoro svolto da Muti con l’Accademia ha dunque l’obbiettivo di formare i giovani direttori d’orchestra, e con loro i “maestri collaboratori al pianoforte”, trasmettendo loro le proprie conoscenze ed importanti esperienze relative al patrimonio operistico italiano.
L’attività dell’accademia si concretizza in incontri periodici annuali durante i quali l’opera che è stata selezionata viene poi studiata in sala con orchestra, cantanti e coro, a stretto contatto con il maestro, che cerca di mostrare e trasmettere loro l’arte della “costruzione musicale”.
Uno di questi incontri ha avuto luogo una settimana fa, in forma di “lezione-concerto”, presso la Fondazione Prada a Milano con la presentazione al pubblico di “Norma” di Vincenzo Bellini.
Muti, nell’introdurre l’opera, ha anche parlato in generale della condizione della musica operistica in Italia e nel mondo, sottolineando il fatto che certe consuetudini, che costituivano in passato una parte integrante del processo di preparazione e rappresentazione, sono state quasi del tutto dismesse dagli operatori del settore, determinando, nei fatti, un generale decadimento della qualità della produzione artistica.
Va anche detto che la preoccupazione espressa da Muti a questo proposito, ed in generale riguardo allo stato dell’arte e della cultura in Italia e nel mondo, non è cosa nuova, e che sono frequenti i suoi interventi a sostegno ed a difesa del nostro patrimonio culturale in campo musicale.
In questa occasione Muti è entrato però maggiormente nel dettaglio del problema della rappresentazione operistica, sottolineando che tra i compiti del direttore d’orchestra vi era tradizionalmente quello della concertazione, ovverosia della vera e propria “costruzione musicale” dell’opera.
Con la concertazione il lavoro compiuto dal direttore era, detto molto in generale, quello di cercare di ricomporre gli equilibri tra le parti di orchestra, coro e cantanti, e di individuare e promuovere i caratteri di ciascuna parte, coerentemente con la partitura, secondo le intenzioni originarie dell’autore.
La figura del maestro-concertatore, spiegava Muti, che coincideva con quella di direttore, è andata via via scomparendo in tempi recenti, lasciando spazio a direttori d’orchestra che, viceversa, tendono ora ad occuparsi esclusivamente di condurre a tempo i musicisti senza più occuparsi della concertazione.
La mancanza di questa rilettura consapevole delle partiture e dei libretti, accompagnata da una conoscenza approfondita degli autori e delle loro caratteristiche fondamentali, aggiunge ancora Muti, è causa, comprensibilmente, di un generale decadimento interpretativo dell’opera rappresentata, e penalizza gravemente gran parte della musica operistica italiana, colpendola particolarmente nelle sue specificità.
Nel caso della produzione Belliniana, che per molti rappresenta il “Belcanto” italiano per antonomasia, la mancanza di un suo studio e di una sua conoscenza approfonditi impedisce di poterla interpretare e restituire nella sua vera grandezza.
“Norma” presenta, ci ricorda Muti, una parte orchestrale apparentemente “semplice”, differente ad esempio dalle grandi tessiture wagneriane in cui i testi delle arie ed i recitativi sembrano immergersi, che la fa erroneamente riconoscere come musica d’accompagnamento.
In realtà l’orchestra serviva a Bellini per sostenere, con grande attenzione al fraseggio, la bellezza, la potenza e l’intensità del canto, dopo che, attraverso la sua arte egli era riuscito a sollevare la parola, maestosamente, al livello della musica.
Muti accenna quindi allo scarso impegno “vero” dei nuovi direttori, che gli paiono maggiormente interessati alla gestione della propria immmagine visibile, piuttosto che alla qualità di ciò che si propongono di rappresentare. Ed accenna anche al ruolo ambiguo assunto dai registi, i quali intendono introdurre sempre più elementi arbitrari ed estranei a ciò che riguarda la rappresentazione e rispetto alle necessità della musica per come essa era stata concepita dai compositori (2).
Il contributo culturale dato da Riccardo Muti, che ci pare quantomai opportuno anche se tacciato di tradizionalismo da parte di tanta critica ahimè “qualificata”, tende quindi a rimettere la musica al centro dell’arte operistica, liberandola da tutte quelle ambiguë diversioni determinate da una malintesa pretesa di modernità e da un desiderio di protagonismo del tutto fuori luogo.
L’opera italiana si trova, dice spesso Muti, ad un livello di qualità non certo inferiore rispetto alla musica d’oltralpe, ma va suonata e rappresentata con l’accuratezza e la profondità con cui era stata concepita.
Le difficoltà che presenta la messa in scena di Norma sta appunto nel riconoscere le sue particolarità, la drammaticità dei ruoli che richiedono voci adeguate e l’altissimo lirismo delle sue melodie, e nel rappresentarle come tali.
E soltanto dopo uno studio approfondito che, a partire dal lavoro del direttore coinvolga il lavoro dell’orchestra, dei cantanti e del coro, è possibile aspettarsi, riteniamo noi, un risveglio del pubblico alle vere qualità della grande arte musicale italiana.
“Il compito del direttore d’orchestra, dice Muti in chiusura, è quello di sublimare il canto senza tralasciare il tessuto orchestrale. Esso non deve essere ricondotto a semplice accompagnamento, ma deve intersecarsi con le voci, a cui dare colore e calore”(3).
NOTE :
1) Dalla documentazione fornita al pubblico in occasione dell’evento.
2) “Nelle pause, dice Muti, di cui hanno timore, aggiungerebbero volentieri una motocicletta che passa…”
“Una sera d’inverno nell’uscire da Galleria De Cristoforis m’imbatto in Merelli (1) che si recava a teatro. Nevicava a larghe falde, ed esso prendendomi sotto braccio mi invita ad accompagnarlo al camerino de La Scala. Strada facendo si chiacchera e mi racconta di trovarsi in imbarazzo per l’opera nuova che doveva dare: ne aveva l’incarico Nicolai(2), ma questi non era contento del libretto. « Figurati, dice Merelli, un libretto di Solera, … stupendo!… magnifico!… straordinario!… posizioni drammatiche efficaci, grandiose: bei versi… ma quel caparbio maestro non ne vuol sapere e dichiara che è libretto impossibile!… non so dove dar di capo per trovarne un’altro subito ». (…) « Vedi, ecco qui il libretto di Solera, un così bell’argomento e rifiutarlo! … Prendi… leggilo ». « Che diamine debbo farne?… no,no non ho la volontà alcuna di leggere libretti.» « Eh…non ti farai male per questo… leggilo e poi me lo riporterai.» E mi consegna il manoscritto: era un gran copione a caratteri grandi, come s’usava allora. Lo feci in rotolo e salutando Merelli mi avvio a casa mia. Strada facendo mi sentivo indosso una specie di malessere indefinibile, una tristezza somma, un’ambascia che mi gonfiava il cuore… Mi rincasai e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomisi ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava accanto a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: « Va’, pensiero, sull’ali dorate ». Scorro i versi seguenti e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, nella cui lettura mi dilettavo sempre. Leggo un brano, ne leggo due : poi, fermo nel proposito di non scrivere, faccio forza a me stesso, chiudo il fascicolo e me ne vado a letto… Ma sì… Nabucco mi trottava pel capo! … il sonno non veniva : mi alzo e leggo il libretto, non una volta, ma due, ma tre, tanto che al mattino si può dire ch’io sapeva a memoria tutto quanto il libretto di Solera. Con tutto ciò non mi sentivo di recedere dal mio proposito, e nella giornata ritorno al teatro e restituisco il manoscritto a Merelli. « Bello, eh… mi dice » lui. « Bellissimo. » « Eh!… dunque mettilo in musica. » « Neanche per sogno… non ne voglio sapere. » « Mettilo in musica, mettilo in musica! » E così dicendo prende il libretto, me lo ficca nella tasca del soprabito, mi piglia per le spalle, e con un urtone mi spinge fuori dal camerino. Non solo, mi chiude l’uscio in faccia con tanto di chiave. Che fare? Ritornai a casa col Nabucco in tasca: un giorno un verso, un giorno l’altro, una volta una nota, un’altra volta una frase… a poco a poco l’opera fu composta”. (3)
Così Giuseppe Verdi ci descrive come, al culmine di una fase drammatica della sua vita, durante la quale dovette subire la perdita dei due figli e della giovane moglie, si trovò a comporre l’opera che fu il suo primo grande successo di pubblico e che segnò il suo esordio da protagonista nel mondo del teatro musicale.
Nabucco andò in scena al Teatro alla Scala di Milano il 9 marzo 1842, con il baritono Giorgio Ronconi nel ruolo principale ed il soprano Giuseppina Strepponi, che Verdi sposerà successivamente in seconde nozze, nell’impegnativo ruolo di Abigaille.
Il libretto, tratto dal dramma “Nabucodonosor”, scritto nel 1836 da Auguste Anicet-Bourgeois e Francis Cornue, e dal ballo “Nabucodonosor”, opera del corografo Antonio Cortesi, era dovuto alla penna dello stravagante poeta Temistocle Solera (1815-1878).
L’immediato successo dell’opera, che costrinse il teatro a mettere in cartellone ben 57 repliche, in aggiunta alle 8 già programmate, fu dovuto verosimilmente alla novità della musica composta da Verdi ed alla sua forza di coinvolgimento, capace di destare entusiasmo persino tra coloro che lavoravano alla messa in scena del lavoro.
“Il successo della nuova opera cominciò alle prove. Durante il corso degli studi il teatro era, per così dire, messo in rivoluzione da una musica di cui fino allora non si aveva nessuna idea. Il carattere dello spartito era talmente nuovo, talmente sconosciuto, lo stile così rapido, così insolito che lo stupore era generale e che i cantanti, cori, orchestra, all’udire questa musica mostravano un entusiasmo straordinario.” (4)
Va detto a questo proposito che il Nabucco di Verdi si presentava come un’opera nella sua completezza e pienezza di intenti, nel modo in cui cioè si incontravano con evidenza i due tratti fondamentali dell’arte verdiana: da un lato la ricerca dell’espressività del momento musicale nel suo legarsi ai vari passaggi della trama dell’opera, e dall’altro la ferma rispondenza ai contenuti morali, che erano presenti in ciascun lavoro.
Da una parte, quindi, l’uso di forti contrasti nel susseguirsi dei passaggi di trama e momenti musicali, per evidenziare e definire situazioni e caratteri dei vari personaggi, e da un’altra la netta distinzione fra personaggi positivi, anche se non di rado soccombenti nel corso dell’azione (i cosiddetti eroi verdiani), e negativi, agenti in generale per motivi di interesse personale e di potere.
Un altro importante segnale del livello della portata “etica” di Nabucco sta nell’origine del testo, che si basa sui contenuti biblici provenienti dal Libro di Daniele, sia per quanto riguarda la conquista ed il saccheggio di Gerusalemme da parte dei babilonesi, che, e soprattutto, per riguardo alla conversione del loro re Nabucodonosor al culto della religione ebraica.
Nell’opera si intreccia, in modo complesso, la vicenda sentimentale di alcuni personaggi, Ismaele (tenore), Fenena (soprano) ed Abigaille (soprano drammatico), con quella dell’intero popolo ebraico, ridotto in prigionia dall’esercito babilonese che è posto al servizio delle mire espansionistiche del feroce ed ambizioso re Nabucco (baritono).
Sarà proprio Nabucco, condotto dalla sua brama di potere a contapporsi contemporaneamente all’autorità del Dio di Israele ed a quella delle divinità babilonesi, a confrontarsi, per primo e duramente, con il peso delle proprie scelte ed a dover attraversare un periodo di prigionia, impostogli dalla figlia adottiva Abigaille, afflitto da temporanea insanità mentale.
Soltanto la conversione del re prigioniero al culto del Dio di Giuda, dettatagli dal desiderio di salvare la propria figlia Fenena già condannata a morte, permetterà a Nabucco di ricuperare il senno perduto e di ritornare alla guida, questa volta virtuosa e rispettosa delle leggi divine, del proprio popolo.
– O –
Un’estetica di forti contrasti, si diceva quindi, è quella messa in campo da Verdi, per definire pregi e contraddizioni presenti nei vari personaggi, e tratteggiarne in modo efficace levatura e bassezze di tipo morale, in un racconto che diventa efficace ed esemplare, pur anche collocandosi al di fuori del tempo storico cui appartiene, allo stesso modo dei racconti biblici da cui proveniva.
Valgano allora per tutti due esempi cui riferirsi per far intender meglio ciò a cui abbiamo accennato.
Nel personaggio di Abigaille, ex schiava e figlia adottiva di Nabucco che approfitta delle circostanze createsi per impadronirsi del potere, traspare direttamente, nel contrasto di toni e gorgheggi, alternantisi nel canto e nel declamato, la virulenza materiale e blasfema dei babilonesi, rappresentanti il male destinato a soccombere.
Abigaille rappresenta in sostanza una sorta di anti-eroina, ostacolante rispetto alla possibilità di elevazione del proprio popolo (che al momento opportuno addirittura la acclama), che esprime nel suo canto una qualità negativa, non certo con finalità “belcantistiche”, ma funzionale al personaggio (pensiamo alla truce cabaletta “Salgo già del trono aurato”).
Un personaggio che per certi apetti costituisce l’abbozzo primitivo di figure più complesse e raffinate come quelle che saranno, per Verdi, Lady Macbeth e, successivamente, Amneris nell’Aida.
L’altro esempio, non meno importante, cui vogliamo riferirci, è quello del coro degli ebrei prigionieri sulla riva del fiume Eufrate, che viene innalzato al pari di una preghiera al termine della terza parte dell’opera.
La famosissima melodia del “Va pensiero”, che poggia in prima battuta sul sentimento di nostalgia derivante dalla forzata lontananza dalla patria cui il popolo è sottoposto, ha in realtà una portata evocativa ben maggiore, che può trasparire a condizione che il brano venga ascoltato in una sua interpretazione corretta.
Non hanno ovviamente alcuna rispondenza né interesse qui le numerose interpretazioni “politiche” che vorrebbero, anche in questa circostanza, ridurre l’opera di Verdi ad una sorta di propaganda risorgimentale, sminuendone colpevolmente, ed in modo spesso imbarazzante, la portata (5).
Mentre invece l’originalità del meraviglioso brano, che attacca all’unisono tutto sottovoce e cantabile, muove innanzitutto dal ruolo assunto dal coro in questa particolare circostanza. Il coro, che compare sulla scena all’apertura del sipario, in un’atmosfera di forte attesa, diviene protagonista e portatore di una visione generale e riassuntiva, in cui viene messa in luce ben altra prigionia di cui l’intera umanità è caduta vittima anche e soprattutto nell’epoca che tuttora stiamo vivendo.
Una prigionia che parla di luoghi, ma che si riferisce in realtà alle anime degli uomini, le cui qualità superiori (l’arpa d’or) non riescono più a risuonare come avveniva in epoche remote.
Il coro, col suo salire e scendere di un’ottava partendo dal do, esprime la leggerezza del volo, sottolineandone la circolarità con le terzine che ci guidano ad una progressiva ascesa.
É quella l’ascesa dello spirito verso i mondi superiori, che viene qui invocata (oh t’ispiri il Signore) e da cui sola può esser tratta una rinnovata armonia tra gli esseri, ed attraverso cui possa esser restituito un senso vero alle sofferenze patite che possa portare alla loro trasformazione in eterne qualità dell’anima (che s’infonda al patire virtù).
NOTE :
1) Bartolomeo Merelli, impresario del Teatro alla Scala.
2) Otto Nicolai, compositore tedesco.
3) In : Arthur Pougin, “Vita aneddotica di Verdi (1881)”, Firenze, 2001, pp. 67-68.
4) In : Arthur Pougin, ibid. pp. 56-57.
5) Mi riferisco in questo caso all’allestimento del regista francese Arnaud Bernard che da circa due anni presenta all’Arena di Verona un’inguardabile interpretazione del Nabucco ambientando l’azione nella Milano del 1848, con l’esercito austriaco al posto di quello babilonese, i milanesi al posto degli ebrei e con Nabucco nei panni dell’imperatore d’Austria…
Ho sempre ritenuto che la musica avesse un ruolo importante tra le arti che l’uomo era in grado di praticare, e, purtuttavia, sebbene mi piacesse ascoltarla, non me ne ero mai occupato seriamente. A maggior ragione, tra tutte le sue differenti espressioni, non avevo mai neppure considerato che l’opera lirica potesse far parte dei generi musicali in grado di appassionarmi. Anzi, vista dall’esterno, l’opera mi appariva come una forma di espressione artistica irrimediabilmente datata.
Nato nei secoli precedenti ma sviluppatosi con più intensità in un periodo di tempo circoscritto e particolare nel corso dell’ottocento, il melodramma mi pareva il frutto di una visione storica un po’ ingenua, cui si coniugava una caricatura impropria del vivere sentimentale, che si esprimeva nelle rappresentazioni teatrali di racconti fantastici in cui la musica accompagnava il canto, e dove nei dialoghi la lingua italiana era trasformata in qualcosa di pressoché incomprensibile.
Pensavo anche che l’andare oggi ad assistere a tali rappresentazioni potesse avere per il pubblico principalmente due tipi di significati: da un lato poteva essere segno di una certa ostentazione “mondana”, e dall’altro poteva esprimere il desiderio di dedicare la propria attenzione a forme di svago particolari, estranee all’attualità se non addirittura del tutto fuori dal tempo.
E credo che probabilmente avrei continuato a restare in compagnia di queste idee ancora a lungo se non mi fosse accaduto recentemente, e non certo per una mia iniziativa, di ascoltare l’esecuzione di un brano musicale cantato da Maria Callas.
La registrazione, che era stata realizzata con una certa cura, metteva a confronto il canto della Callas con quello di altre interpreti liriche, anch’esse impegnate nell’esecuzione del medesimo brano, e poneva in evidenza, assieme alle differenze relative al timbro vocale ed alla tecnica utilizzata, anche e soprattutto l’effetto complessivo che tale esecuzione produceva in chi ascoltava. Effetto che era tanto più evidente quanto più si fosse riusciti a lasciare che musica e canto agissero liberamente sul proprio “sentimento” senza che vi fossero frapposti impedimenti di carattere “intellettuale” o di altro genere.
L’effetto di tale tipo di ascolto, che ciascuno, se lo vuole, può sperimentare individualmente, è stato davvero sorprendente. Non solo, in vario modo, le esecuzioni delle altre cantanti, per quanto “ben fatte”, non riuscivano a suscitare particolare emozione, ma l’interpretazione della Callas era la sola, forse per il “cuore” che in essa veniva profuso, la quale, a partire da un tema musicale assegnato, riuscisse a far nascere qualcosa di unico, qualcosa di elevato e nobile e, per certi versi, di irripetibile.
La storia di Maria Callas, come cantante lirica e come persona, può forse aiutare a dare in parte ragione di quelle qualità che ella indubbiamente aveva e che le hanno consentito di emergere nel panorama della lirica mondiale a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, ma vi è stato di certo qualcosa in più, che, esprimendosi nella sua individualità, ha permesso di farle raggiungere interpretazioni di livello assoluto, e di cui, mi pare, sia necessario occuparsi.
Nata nel 1923 negli Stati Uniti d’America da una coppia di greci che si era da poco tempo stabilita a New York, Maria Anna Cecilia Sofia Kalogeropulos (1) si trasferì ad Atene, in Grecia, all’età di tredici anni al seguito della madre, e lì prosegui lo studio del canto, verso cui aveva mostrato da subito una grande predisposizione, frequentando il conservatorio della città. Qui venne presto affidata all’insegnamento della maestra spagnola Elvira de Hidalgo che ebbe ruolo determinante per la sua formazione e di cui Maria conservò sempre un affettuoso e grato ricordo. La Hidalgo infatti fu forse l’ultima grande interprete lirica ad aver ricevuto, a sua volta, una formazione musicale incentrata sul belcanto, ed ebbe pertanto modo di trasmetterla anche a Maria.
Il belcanto era stato una forma di disciplina e di arte canora unite insieme, che nacque e si sviluppò in Italia a partire dal 1700 fino a tutta la prima metà dell’ottocento. La sua conoscenza ed applicazione furono ritenute in seguito dalla Callas, alla luce della propria esperienza, bagaglio indispensabile per formare le basi di qualsiasi soprano (2) di buon livello:
“Il belcanto è una camicia di forza che devi imparare ad indossare, che ti piaccia o no. In un certo senso non è diverso dall’imparare a leggere o a scrivere. Nel canto – che è anche una lingua, sebbene più precisa e complessa – devi imparare a formare frasi musicali, spingendoti fin dove ti consente la tua forza fisica. Inoltre, quando si inciampa, bisogna essere in grado di rimettersi in piedi secondo le sue regole. L’agilità vocale, e di conseguenza la coloratura, è vitale per tutti i cantanti lirici, che la utilizzano o meno nell’esecuzione. Senza una formazione adeguata in materia il cantante rimarrà limitato, zoppo.” (3)
Dopo la parentesi americana, che la vide soggiornare di nuovo a New York per un anno e mezzo alla ricerca di scritture teatrali, Maria Callas approdò in Italia, a Verona, nel 1947, per esordire ne “La Gioconda” di Ponchielli sotto la direzione del maestro Tullio Serafin.
L’incontro col maestro Serafin fu certamente importante per Maria, e servi ad inserirla progressivamente nel mondo della lirica a livello nazionale ed internazionale. Egli apprezzava le sue capacità e la incoraggiava ad acquisire quella sicurezza che le era necessaria per salire sui palcoscenici più prestigiosi.
“Tu hai uno strumento” – le diceva Serafin – “con il quale studi durante le prove, come fa un pianista con il suo pianoforte, ma durante l’esecuzione devi sforzarti di dimenticare che hai studiato; devi divertirti a cantare, esprimendo la tua anima attraverso la voce.” (4)
Determinante fu invece, per la formazione di Maria, l’intenso lavoro di preparazione che svolse, negli anni del soggiorno veronese, presso il Maestro Ferruccio Cusinati, grande esperto di canto lirico ed allora direttore dei cori dell’Arena. Cusinati la aiutò a preparare le prime opere che ebbe modo di interpretare, tra cui la stessa “Gioconda” e soprattutto il “Tristano”, che fu messo in scena a Venezia nel 1947 e per il quale fu pronta a cantare in un tempo eccezionalmente breve.
Grazie a Ferruccio Cusinati approfondì la conoscenza dei principali ruoli dell’opera lirica costituendo un solido fondamento per le proprie capacità interpretative. Se quindi, con la Hidalgo, Maria aveva posto le basi tecniche dell’esecuzione canora, con Cusinati ebbe modo di conoscere il “terreno” su cui un’interpretazione musicale poteva diventare qualcosa di artistico. (5)
È stata poi la stessa Callas a dirigere il proprio entusiasmo, la propria passione per la musica, il proprio perfezionismo quasi maniacale verso lo studio approfondito delle partiture e dei personaggi, arrivando a restituire a molte opere del passato il loro senso originario di “melodramma”, e cioè di rappresentazione drammatica che si esprime attraverso la musica.
Ella era consapevole dell’importanza dei compiti dell’arte e non si sottrasse alle proprie responsabilità di interprete impegnata in una disciplina di livello superiore:
“Devi puntare a diventare lo strumento principale dell’orchestra (che è la definizione di primadonna), e metterti al servizio della musica e dell’arte. Di questo si tratta. L’arte è la capacità di dare vita all’emozione. Una definizione che vale per tutti i tipi di arte: danza, letteratura, pittura. Così un pittore che ha imparato a padroneggiare la tecnica non avrà fatto nulla finché non sarà in grado di produrre un quadro che sia un’opera d’arte.” (6)
Per far ciò occorreva quindi un lavoro meticoloso, di studio e di approfondimento delle opere, che ne cogliesse il carattere originale impresso in esse dal compositore, in modo da adeguare i propri mezzi espressivi alla”verità” della rappresentazione, riconoscendo con consapevole lucidità come in quella particolare musica tutto quanto avesse un senso preciso:
“le fioriture, i trilli e tutti gli altri abbellimenti permettono al compositore di esprimere lo stato d’animo del personaggio nell’opera – incarnano ciò che prova in quel momento, le effimere emozioni che lo catturano. Se tuttavia questi abbellimenti sono usati superficialmente soltanto come sfoggio di abilità vocale, allora saranno controproducenti. Distruggeranno quella caratterizzazione che siamo chiamati a costruire.” (7)
La Callas aveva dunque ben chiaro davanti a sé quale fosse la differenza tra un’interpretazione musicale che avesse come obbiettivo la ricerca del consenso da parte del pubblico (ed in parte della critica), ed un’altra in cui l’attenzione all’espressività, originariamente immaginata dall’autore, e poi rinnovata nelle forme grazie al proprio talento, fosse il tema centrale del lavoro, in modo che questo si potesse poi offrire come dono assoluto alle anime delle persone che ascoltavano. Ella sapeva come il cantare fosse, in sostanza, un “parlare per toni”, e come il canto stesso fosse dunque “la manifestazione più alta e nobile della poesia”. Ma sapeva anche che mettersi in grado di offrire questo dono – poiché questo doveva avvenire – al proprio pubblico voleva dire disporsi a rinunciare, infine, ad ogni vantaggio personale e prepararsi ad affrontare qualcosa di simile ad un sacrificio:
“L’arte della musica è così sconfinata che può sprofondarti nell’ansia e infliggerti una tortura quasi perpetua. Ma tutto ciò non è invano. È un onore e un grande piacere servire la musica con amore e umiltà.” (8)
E in questo sacrificare sé stessa in nome della musica e dell’arte stava probabilmente il segreto di quella capacità con cui la Callas dimostrava di saper comunicare con il suo canto da anima ad anima, andando a toccare direttamente il cuore della gente. Ecco perché melodie scritte nei primi decenni dell’ottocento tornavano con lei miracolosamente in vita per suscitare ancora rinnovate emozioni:
“Non c’è nulla di obsoleto, il sentimento è sempre reale e profondamente sentito, un sentimento onesto sarà sempre onesto. Il canto non è un atto di orgoglio, ma un tentativo di elevarsi verso l’alto, dove tutto è armonia.” (9)
La Callas sapeva che potevano esserci, e c’erano, voci più “belle” della sua, ma sapeva anche che il problema non era quello. Sapeva che il compito che si era data era di utilizzate al meglio la propria voce, esprimendo al massimo grado quel talento che le era stato, per qualche motivo, donato:
“Non basta avere una bella voce. Cosa significa? Quando si interpreta un ruolo, è necessario avere mille colori per rappresentare la felicità, la gioia, il dolore, la rabbia, la paura. Come puoi farlo solo con una bella voce? Anche se a volte canti a pieni polmoni, come ho fatto io, deve essere per una necessità di espressione. Dobbiamo farlo anche se la gente non capisce. Ma a lungo andare capirà, perché devi convincerla di quello che stai facendo.” (10)
Nelle registrazioni che ci sono rimaste ritroviamo quei personaggi straordinari che la Callas interpretò, cercando in tutti i modi di identificarsi con ognuno di essi. Paragonata dalla critica, per le sue caratteristiche, alle maggiori cantanti liriche del primo ottocento, quali Maria Malibran e Giuditta Pasta, è stata in grado di far riscoprire al pubblico la qualità di numerose opere di Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti e del “primo” Giuseppe Verdi, che da molto tempo venivano interpretate secondo canoni non più corrispondenti al loro originario dettato. Così possiamo ora ritrovare con emozione davanti a noi il carattere “immacolato” dell’Elvira dei Puritani, quello “arditamente patetico” della Leonora del Trovatore, quello “fantastico e mesto” della Lucia di Lammermoor. E quando Violetta, nella Traviata di Verdi, lancia il proprio struggente acuto rivolta ad Alfredo, non possiamo non riconoscere in esso quell’accento tragico ed appassionato di una donna compromessa che trova nell’amore sincero e disinteressato, cui però deve rinunciare, una forma di doloroso riscatto morale.
Ma è forse con Norma, l’opera di cui la stessa Callas ammise essere stata più legata, che le sue capacità espressive hanno raggiunto il livello più alto. Anche qui ci troviamo di fronte un personaggio complesso, sfaccettato ed altamente tragico. Norma è una sacerdotessa celtica, che, trasgredito il proprio voto di castità, aveva partorito di nascosto i due figli avuti dall’amante romano Pollione. Agitata da grandi tensioni contrastanti, appare forte ma cade in realtà vittima ed in balìa delle proprie passioni. Il suo canto descrive gli alterni sentimenti che la accompagnano nel corso di quello che appare quasi un percorso di espiazione rispetto al tradimento da lei compiuto nei confronti del suo popolo, allora oppresso dall’invasore romano. Un popolo che, legato alle proprie tradizioni continua a credere in lei fino alla fine, anche quando, posta di fronte alle sue responsabilità ella sceglierà il sacrificio estremo, salendo sul rogo. Ma anche un popolo a cui lei aveva risparmiato il dolore inutile della guerra, interpretando fino in fondo, nonostante tutto, il proprio compito sacrale, ed innalzando alla Dea, in forma di preghiera, il proprio canto divino. (11)
NOTE:
1) In America il padre aveva abbreviato il cognome per comodità di pronuncia, mantenendone la prima parte e mutando “Kalos” in “Callas”.
2) Denominazione data generalmente al cantante lirico dotato del registro vocale più alto in assoluto, superiore, nell’ordine, a quello del mezzo-soprano, del contralto, del tenore, del baritono e del basso. Maria Callas fu definita dalla critica “soprano drammatico di movimento”, per descrivere le sue caratteristiche che univano al controllo dei toni possenti propri del soprano drammatico anche l’agilità e le note più acute normalmente considerate repertorio del soprano lirico.
3) Maria Callas, “Io Maria – lettere e memorie inedite”, a cura di Tom Volf, Rizzoli, Milano, 2019. Pag.500.
11) Il riferimento è qui alla celebre cavatina “Casta Diva” che Maria Callas rese ancor più famosa interpretandola magistralmente nei principali teatri del mondo.