Con la fine del Rinascimento e con l’esaurirsi di quella sorgente miracolosa di opere che furono certamente fra le testimonianze più alte della capacità di espressione umana abbiamo visto formarsi in campo artistico, ed in quello delle arti figurative in particolare, una specie di cesura.
L’importanza che l’opera degli artisti aveva sempre avuto in ambito sociale, al di là degli specifici rapporti che questi ultimi intrattenevano con la loro committenza, inizia difatti da quel momento ad essere ridimensionata, soprattutto di fronte ad altri ruoli maggiormente coinvolti nell’elaborazione del pensiero filosofico e politico collegato alle nuove dinamiche economiche indotte dall’espansione dei commerci e delle produzioni.
A partire dalla fine del XVIII secolo, l’attività artistica è addirittura costretta ad accettare compromessi con il mondo dell’artigianato e della nascente industria pur di assicurarsi una posizione stabile all’interno della nuova società borghese, che, da parte sua, mostrava ormai scarsissimo interesse per le rappresentazioni sacre o anche semplicemente celebrative dell’autorità civile o religiosa, che avevano da sempre costituito la base dell’attività di bottega di pittori e scultori.
Inoltre, avendo oggettivamente perduta la capacità di cogliere e ritrasmettere contenuti universali che facessero capo a verità superiori, la nuova arte diventa via via sempre più esercizio interpretativo di situazioni contingenti, di cui poteva essere rappresentata in modo diretto la particolarità.
Essa si adatta allora a diventare espressione di specifiche aspirazioni, coltivate e condivise dai diversi artisti, che talora si legano a movimenti di pensiero, a correnti culturali, fino ad arrivare ad assecondare semplicemente, in circostanze sempre più frequenti ed in modo immediato, i gusti del pubblico.
Paradossalmente, proprio nel momento in cui inizia a riflettere su sé stessa, con la nascita cioè della storia e della critica d’arte, essa si trasforma in “disciplina”, declinandosi e differenziandosi in base a caratteristiche e funzioni.
L’arte si allontana così dall’ambito in cui era nata, che era quello in cui il destino dell’uomo, la sua evoluzione interiore, era effettivamente in gioco, ed inizia a ritagliarsi un campo di azione esterno ed accessorio, basato su linguaggi specifici, sul sostegno offerto da teorie interpretative, e sulla ostinata ricerca di ruoli identitari esercitata dagli artisti spesso attraverso atteggiamenti dichiaratamente antagonistici rispetto alla cultura dominante.
La Parigi di secondo ottocento, uscita dalle vicende rivoluzionarie che hanno condotto nonostante tutto al riaffermarsi, in forme nuove, di un antico potere, diventa in questo senso teatro di esperienze artistiche che fanno da contorno ad una visione della vita fondata ormai apertamente sulla ricerca del puro piacere sensoriale e del benessere materiale.
L’ambiente borghese parigino, fondamentalmente perbenista ed ipocrita, è quello descritto ed interpretato magistralmente da Verdi nella « Traviata », composta nel 1853 sulla traccia de « La Dame aux camélias », il romanzo di Alexandre Dumas di qualche anno precedente.
In tale ambiente nasce e si fa spazio le figura dell’artista socialmente sempre più « separato », ed impegnato a costruirsi una credibilità all’interno ma soprattutto all’esterno dei Salons espositivi in cui di un’arte esplicitamente mondana si faceva ormai puro mercato.
Nascono anche percorsi alternativi a quest’arte artigianale così evidentemente compromessa, in parte in continuità con le precedenti esperienze formatesi attorno ad un convinto antiaccademismo ed al desiderio di sperimentazione.
Muovendo dal paesaggismo di J.B. Camille Corot (1796-1875) si possono apprezzare gli esiti di una ricerca realistica attenta, capace da una parte di arricchire le immagini della vita contadina con un “sentire” aperto alla spiritualità, come avviene per J.François Millet (1814-75), e dall’altra di cogliere i momenti di vita dei ceti più disagiati certamente più carichi di verità non dette rispetto ai temi del divertissement borghese tipico della vita metropolitana, come nel caso di Honoré Daumier (1808-79) e di Gustave Courbet (1819-77).
Ma è invece proprio a Parigi, nella più importante metropoli europea, che si sviluppa un filone pittorico di tutt’altro impegno, la cui caratteristica peculiare è appunto quella di dedicarsi alla esteriorità dei fatti della vita, per coglierne solo la parvenza, l’impressione momentanea, con cui compiacere il gusto di un pubblico che riconosce in essa il suo immediato sentire.
L’opera degli impressionisti, da Édouard Manet (1832-83) a Claude Monet (1840-1926) e da Auguste Renoire (1841-1919) ad Edgard Degas (1834-1917) è rivolta a soggetti effimeri, tratti da episodi di quotidianità profana e normalmente privi di reale interesse.
Essa si sofferma sulla volubilità delle situazioni e, più che sui contenuti, sulla mutevolezza degli effetti prodotti da cambiamenti di luce, dal trattamento del colore e dall’arbitraria scelta dei diversi soggetti da rappresentare.
Da qui si diramano ulteriori percorsi che, sempre a partire dall’osservazione del quotidiano, alternano esperienze sperimentali di nuove tecniche coloristiche (come ad esempio il puntinismo di Georges Seurat (1859-91)) alla pittura estemporanea e frivola di Camille Pissarro (1830-1903) ed Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901), che, a modo loro, celebrano la nuova monumentalità dei grandi boulevards e la apparentemente spensierata vita notturna parigina.
Ma questo è anche il momento che vede comparire sulla scena artistica personaggi particolari, che certamente si pongono obbiettivi culturali più impegnativi ed ambiziosi rispetto agli impressionisti, e che sono destinati ad avere in seguito una certa influenza sugli sviluppi più importanti della pittura del primo novecento.
É il caso di Paul Cézanne (1839-1906), che partendo anche lui dall’osservazione della quotidianità lavora con impegno sulla composizione pittorica, cercando di rendere geometrica l’impostazione dei soggetti bilanciando e costruendo corrispondenze tra le masse di colore e le figure rappresentate.
Nei suoi quadri è riconoscibile la ricerca di un livello superiore di linguaggio pittorico, legato strettamente al rigore compositivo, che diventava per lui il mezzo principale per affrancarsi dalla transitorietà di una visione fondamentalmente episodica dei fatti della vita.
Secondo quest’impostazione Cézanne dipinge la “Montagna di Sainte Victoire”, uno dei suoi quadri più noti, elaborando una tecnica pittorica fatta di campiture di colore tra loro isolate e contrapposte, facendo in modo che l’immagine del paesaggio potesse risultare tale soltanto se colta in una visione di assieme, e che viceversa risultasse praticamente incomprensibile se osservata soltando basandosi su singoli dettagli.
Un caso diverso ma sempre significativo di questa fase è quello di altri due protagonisti della scena pittorica : Paul Gauguin (1848-1903) e Vincent Van Gogh (1853-90), entrambi artisti inizialmente non professionisti ed autodidatti, che aprono la strada a visioni fortemente interpretate e variamente caricaturali della realtà.
I due, che per un periodo prendono a frequentarsi, sono entrambi alla ricerca di un personale modo interpretativo del mondo esteriore di tipo fortemente emozionale, basato, nel caso di Gauguin, sull’uso di larghe campiture di colori accesi unito ad un grossolano simbolismo, ed invece su di una rielaborazione molto sofferta del paesaggismo ottocentesco e della pittura naturalistica nel caso di Van Gogh, il quale, dotato di un particolare talento ma allo stesso tempo oppresso da una grande debolezza sul piano psichico, morirà suicida all’età di trentasette anni.
Alla fine dell’ottocento il panorama artistico si allarga ancora alimentando nuove e molteplici diramazioni, ma, soprattutto seguendo la traccia segnata dalle esperienze di Gauguin e Van Gogh, mette in evidenza una certa corrente denominata “espressionista” cui fanno capo a vario titolo diversi autori che acquisiranno in seguito una certa notorietà.
Le opere del norvegese Edvard Munch (1863-1944) e del belga James Ensor (1860-1949) descrivono chiaramente questo tipo di ricerca, ormai apertamente “di rottura” rispetto alla tradizione figurativa che ancora, in altri ambiti, veniva praticata, sia pur non più rispettando i canoni classici, ormai definitivamente relegati nel campo della ricerca storica ed antiquaria.
Nei lavori di Munch ed Ensor appare evidentissimo il tentativo di evocare specifici stati d’animo o particolari visioni esistenziali a cui gli autori cercano di pervenire operando una serie di forzature rispetto all’uso dei mezzi espressivi tradizionali.
Si arriva in questo modo al punto di accostare immagini apertamente irrealistiche, deformando figure umane e paesaggi, oltreché ad introdurre elementi estranei ed in netto contrasto con la normale visione fisiologico-percettiva della realtà.
É chiaro che questo tipo di tentativi, ripresi in vario modo in Francia dal gruppo dei “Fauves” ed in Germania dagli appartenenti a “Die Brücke” (1), che si sbarazzano quasi completamente del vecchio modo di osservare la realtà e di interpretarla, rispondono ad una spinta particolare ed, almeno in parte, genuina; che punta a riconoscere ed a rappresentare qualcosa di più e di altro rispetto a ciò che l’arte accademica aveva portato, nel corso degli ultimi due secoli, a diventare una prassi del tutto inadeguata ai tempi storici.
Ma è anche vero che la gran parte di questo tipo di sperimentazioni, oltre a condurre a risultati grossolani sul piano tecnico, si rivela portatrice di visioni eccessivamente particolaristiche ed individuali, perchè si possa ritenere che esistano sufficenti motivi di effettivo interesse che li possano far apprezzare sul piano artistico.
Ciononostante, invece di considerare tali opere per quello che erano, e cioè degli abbozzi, fors’anche dei tentativi di aprire nuove strade alla ricerca artistiche, esse vengono indubbiamente sopravvalutate ed introdotte a pieno titolo nella storia dell’arte contemporanea.
Attorno poi all’esperienza delle cosiddette “avanguardie storiche”, che nei primi decenni del novecento ereditano il carattere di rottura assunto in precedenza dall’espressionismo, si sviluppa un’imponente letteratura critica che ne sostiene con convinzione la validità sul piano artistico, non soltanto nei termini dell’interesse suscitato, anche qui, come ricerca espressiva sperimentale, ma rimarcandone la rispondenza al coerente sviluppo dell’attività artistica contemporanea in senso assoluto.
A proposito del cubismo, forse la principale corrente pittorica in seno alle avanguardie, viene tra l’altro fatto notare come questo risponda con mezzi adeguati all’esigenza di rappresentare i sentimenti contemporanei nei confronti del mondo moderno introducendo una nuova tecnica di visione, capace tra l’altro di riconoscere e rendere espressiva la nuova dimensione spazio-temporale caratteristica dell’era industriale:
« I cubisti non cercano di riprodurre l’apparenza degli oggetti da un punto di vista unico; essi girano attorno agli oggetti, cercano di impadronirsi della loro struttura interna. Essi si sforzano di allargare il campo del sentimento; proprio come la scienza moderna allarga le sue definizioni per annettersi nuovi campi di fenomeni naturali » (2).
Così si esprime, per riportare direttamente un esempio, il critico e storico svizzero Sigfried Giedion in un testo uscito nel 1941 e presto adottato come “classico” da tutte le università degli Stati Uniti e non solo. Ed è proprio per mezzo di pubblicazioni di questo tipo che vengono messe in circolazione quelle chiavi di lettura interpretative dell’opera cubista a cui si è in seguito letteralmente improntata la maggior parte della critica interessatasi ai movimenti di avanguardia.
Non credo che, alla luce di tali circostanze, sia possibile negare che sia stato tale tipo di critica, diffusasi nell’arco di un breve periodo di tempo, a far nascere un consenso ed un apprezzamento generalizzati rispetto all’opera dello spagnolo Pablo Picasso (1881-1973) e del francese Georges Braque (1882-1963), entrambi considerati tra i massimi interpreti dell’avanguardia e del cubismo in particolare.
Eppure, anche tralasciando di porre attenzione alla indubbia contraddittorietà del “personaggio” Picasso, riconosciuto come principale protagonista di quest’esperienza (3), resta tutt’oggi impossibile non notare come, dal punto di vista artistico, nei quadri cubisti vi sia ben poco di davvero apprezzabile, se non si vuole a tutti i costi accettare, intellettualisticamente, la validità della chiave interpretativa proposta in modo praticamente unanime dalla critica.
E come al di là del riconoscere l’effettivo utilizzo del meccanismo di “scomposizione” delle forme, della suddivisione delle immagini su piani contrapposti, dell’uso di materiali diversi applicati in forma di collage, non resti granché in grado di convincerci che tali opere si possano considerare delle esperienze artistiche di qualità elevata.
Anche in questa occasione, come in molte altre analoghe occasioni che spesso ci si presentano, anziché cercare a tutti i costi di aderire ad interpretazioni preconfezionate sulla base di teorie la cui validità resta ancora tutta da dimostrare, occorrerebbe fare lo sforzo di liberarsi da ogni condizionamento, e cercare di risvegliare, con serenità e fiducia, la nostra genuina capacità di giudizio.
Per far questo, se davvero nutriamo un sincero interesse per questa materia, potremmo ad esempio provare a far sorgere davanti a noi l’immagine dell’intera storia dell’arte umana, per come siamo stati in grado di conoscerla ed apprezzarla, e per come questa ha saputo e potuto penetrare dentro di noi per entrare in risonanza con le corde più profonde della nostra anima.
Ci accorgeremmo allora che per conoscere cosa si cela in realtà dietro all’apparenza degli oggetti non serve a nulla moltiplicare meccanicamente i punti di vista da cui osservarli, se poi non ci si cura degli effetti che producono dentro di noi tali rappresentazioni, ancorché scomposte in parti di realtà che, in effetti, come tali non esistono neppure.
Poiché sono questi effetti, prodotti nell’anima umana dall’esperienza artistica, gli aspetti importanti di cui bisognerebbe occuparsi, e che costituiscono il vero scopo ed il vero significato della funzione esercitàta dall’arte.
La vera arte passa anche attraverso le apparenze, questo è certo, ma per proseguire poi oltre e parlare alla nostra anima, così come abbiamo potuto sperimentare, ed ancora oggi possiamo, dedicando la nostra attenzione all’opera dei grandi maestri del passato.
Il corso della storia ha fatto sì che il cubismo, il futurismo dopo di lui, e poi ancora altre forme di rappresentazione sviluppatesi in seguito sulla base di queste esperienze, stravolgessero la visione dell’arte come fatto qualitativo, facendosi forti del sostegno di un pensiero critico a sua volta del tutto estraneo a tale visione. (4)
L’arte ha dovuto, in quest’epoca, rinnegare sé stessa.
Ha dovuto azzerare tutto ciò che era sopravvissuto dalle precedenti esperienze e conoscere, disperdendosi nel caos, il proprio contrario.
Ha dovuto subire l’onta dell’inganno ed accettarne le conseguenze, allontanandosi dall’uomo per ripresentarsi al suo cospetto sotto forma di ostacolo.
Essa ha compiuto tutto ciò attraverso l’opera di uomini, in parte consapevoli ed in parte no, delle cui effettive capacità artistiche e delle cui qualità morali non si è ancora potuto né voluto parlare a sufficienza.
Ma questa condizione, in cui l’arte tuttora si trova, è destinata a cambiare.
Come nella vita, anche nel campo dell’arte, che con la vita ha molto a che fare, le menzogne hanno le gambe corte, e tutti avranno la possibilità di ritornare ad accostarsi ad essa liberi da pregiudizi e condizionamenti dettati da una cultura troppo spesso figlia di intenzioni poco chiare.
Solo allora l’arte potrà risorgere e tornare ad accompagnare gli uomini aiutandoli, se necessario, a portare a compimento ciò che sta loro a cuore.
E tornerà nuovamente ad essere un’arte etica, colma di bellezza e di verità, come quella alla quale i grandi maestri del Rinascimento ci avevano abituato.
Opera di artisti capaci di riprendere a raccontare una storia antica, di cui qualcosa ancora ricordiamo, e che ci ha sempre guidato, dandoci coraggio e fiducia, a muoverci tutti insieme, nella giusta direzione, verso il nostro futuro.
NOTE.
1) I Fauves (= le belve) erano un gruppo di artisti raccoltisi a Parigi attorno alla figura di Henri Matisse (1869-1954) a partire dal 1892. La loro denominazione naque per sottolineare in modo sarcastico la semplificazione delle forme e la brutalità dei contrasti cromatici delle loro opere.
Die Brücke (= il ponte) nacque a Dresda nel 1905 attorno ad un programma artistico definito, avendo come capofila Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938).
2) in : Sigfried Giedion, “Spazio, tempo ed architettura”, Hoepli, Milano, 1981. P. 426-427.
3) Da almeno due distinte testimonianze, delle quali una riportata da persona di mia diretta conoscenza, risulta che Picasso usasse vantarsi in privato di come il suo successo come pittore fosse dovuto alla sua personale abilità di presentarsi come caposcuola di una corrente artistica nei cui presupposti in realtà egli non credeva affatto, irridendo la creduloneria del proprio pubblico e quella, non si sa quanto inconsapevole o quanto complice, della critica di settore.
4) Mi riferisco qui al fatto che alcuni fra i fenomeni “artistici” più contraddittori avutisi nel secondo dopoguerra, come ad esempio il cosiddetto Informale in Europa e l’action painting negli Stati Uniti, che non possono essere considerati altrimenti che esperienze apertamente anti-artistiche, dimostrano di avere radici comuni rispetto alle ricerche di avanguardia di inizio secolo.
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