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Arte, Cezanne, Gauguin, impressionismo, Monet, Parigi, post-impressionismo, Seurat, Van Gogh
I motivi per cui Parigi può essere considerata la capitale dell’arte del XIX secolo sono sicuramente molti e se ne potrebbe parlare a lungo.
Certamente, per la prima volta nella sua storia, è la metropoli francese a diventare crocevia e teatro, soprattutto a partire dalla seconda metà dell’ottocento, delle esperienze artistiche più significative, destinate a fare da riferimento per i principali movimenti artistici del secolo successivo.
Parigi, essendosi rivelata capace di accogliere e far coesistere personalità artistiche di diversa formazione e provenienza, ha reso in qualche modo possibile il fiorire di numerose esperienze anche tra loro apparentemente incompatibili e lontane da quelle che potevano essere le loro comuni radici.
Ma proprio a partire da tali lontananze è possibile rintracciare ciò che accomuna quelle esperienze, così diverse, nonostante la loro contiguità, da rendere lo scenario artistico di fine ottocento talmente eterogeneo da apparire quasi contraddittorio.
Questo tratto comune, che deriva dalla particolarità di una situazione in gran parte caotica e segnata da repentini cambiamenti, coincide, in effetti, con il loro carattere sperimentale.
È infatti a partire dal termine di quella precedente fase, che va sotto al nome di impressionismo, che prende l’avvio una decisa sperimentazione artistica diretta in varie direzioni, e che conduce, nel giro di pochi decenni, al definitivo abbandono, da parte di diversi gruppi di artisti, delle tradizionali tecniche di rappresentazione figurativa.
Già in alcune opere di Claude Monet (1840-1926), considerato la figura più rappresentativa dell’impressionismo, si riconosce in realtà il tentativo di avviare una sorta di sperimentazione in campo artistico, quando di un unico soggetto (pensiamo per esempio alla “Cattedrale di Rouen”) vengono prodotte innumerevoli rappresentazioni con l’obbiettivo di cogliere i diversi effetti di luce nell’arco dell’intera giornata.
Ma per Monet si tratta in fondo soltanto di aggiungere elementi di approfondimento alla sua “poetica” già consolidata, che caratterizza un’arte fondata su di una percezione sensoriale la cui descrizione avviene istante per istante. E che non lascia spazio ad interpretazioni che si occupino di conenuti altri rispetto ad una concezione estemporanea e selettiva della realtà trasfigurata in immagini luminose e resa fruibile come pura parvenza.
Altro sono infatti le sperimentazioni prodotte da artisti che dall’impressionismo hanno sì assorbito, per così dire, il luminoso riverbero ed alimentato con esso la loro iniziale esperienza, ma che grazie a tale spinta sono giunti fino a far nascere nuovi linguaggi pittorici con cui esprimere visioni tutt’affatto diverse, che si ponevano come obbiettivo ultimo, ancorché non dichiarato, quello di restituire in qualche modo all’artista il ruolo ormai desueto di conoscitore ed interprete del proprio tempo.
Oltre la percezione alla ricerca della verità.
Ciò che caratterizza l’opera di Paul Cézanne (1839-1906) sta nella sua intensità, frutto di un imponente lavoro di studio e di pensiero.
Formatosi alla scuola classica di Nicolas Poussin, Cézanne sviluppa una modalità di impostazione costruttiva dell’opera pittorica, fatta di chiarezza, ordine e logica, che si esprimono chiaramente nel risultato della composizione.
Il lavoro svolto sul controllo della luce, frutto dell’esperienza impressionista, viene così ad integrarsi al rigore compositivo, che costituisce l’elemento permanente cui ancorare la rappresentazione e con cui arrivare al superamento della volubilità indotta dalla semplice percezione.
Nella “Montagna Sainte Victoire” (1902-04) il rigore si esprime nell’equilibrio gerarchico delle masse cromatiche raccolte all’interno di una composizione geometrica distribuita su diversi piani. Nulla qui è casuale ma appartiene ad un solo ordine cui anche il più piccolo evento quotidiano è costretto a sottostare.
Dopo la fase dell’ebbrezza impressionista i quadri di Paul Cézanne sembrano ricordarci l’esistenza di una legge, di una forma di superiore controllo con cui anche il più ribelle ed indipendente fra gli artisti è tenuto a misurarsi.
E successivamente, nel momento in cui alle corrispondenze geometriche si aggiunge una ricerca di equilibri dinamici, svincolati dalla necessità di ricondurre le linee ad un unico punto di osservazione, come nel caso delle “Grandi bagnanti” (1906), Cézanne anticipa, a detta di molti, quella che sarà la visione policentrica sviluppata dai cubisti, che viene qui sperimentata pur senza abbandonare le suggestioni e la ricchezza espressiva contenuta nella lettura figurativa della realtà.
Dallo straniamento verso un simbolismo primordiale.
Pittore autodidatta, Paul Gauguin (1848-1903) esce, per così dire, dalla gabbia del sistema economico-sociale (lavorava come agente di cambio) ad un certo punto della sua vita per dedicarsi interamente all’arte senza sottostare a compromessi.
Nei suoi quadri sono chiaramente assenti sia le suggestioni derivanti dalle ricerche sulla luce di matrice impressionista, sia le tracce degli studi sullo spazio e sulla profondità dell’immagine di tradizione classica ed accademica.
Egli fa tuttavia propria la poderosa spinta verso la ricerca di un nuovo orizzonte espressivo fino al punto di esprimere con i pochi mezzi tecnici della sua pittura una concezione esistenziale in aperta rottura con la visione della cultura dominante.
Un’arte, quella praticata da Gauguin, che viene vissuta come espressione di integrazione fra diverse culture (notevole in questo senso l’esperienza tahitiana), e che si fa portatrice di una religiosità popolare attraverso l’uso di un simbolismo grossolano ma efficace.
L’utilizzo di campiture di colore antinaturalistiche, di figure piatte, di contorni netti colgono l’obbiettivo di ricondurre l’attenzione dell’osservatore a pochi semplici messaggi (la critica parla a questo proposito di sintetismo).
Lontano anche dai riferimenti culturali della tradizione pittorica, Gauguin punta decisamente a praticare un canale comunicativo di tipo emozionale, cercando di suscitare, anche se in modo spesso scomposto, reazioni intessute di forti sentimenti, aprendo così la strada a percorsi artistici in seguito sviluppati dalla corrente espressionista.
Dal realismo alla pittura visionaria.
Da ammiratore ed amico di Gauguin, Vincent Van Gogh (1835-1890) non può che approdare ad una pittura di forte impatto emotivo, espressione compiuta dell’attività dettata dal proprio animo tormentato che, dopo aver segnato profondamente gli anni della produzione artistica, lo condurrà infine al suicidio.
Anch’egli approdato alla pittura vissuta come esperienza amatoriale, Van Gogh si appassiona inizialmente ad una forma di realismo mistico, in cui si fa accompagnare al seguito dell’opera di Jean François Millet (1814-1875), ed avvicinandosi cosi a forme di lettura della realtà in netta controtendenza rispetto alla cultura dominante.
L’attenzione dedicata alla condizione dei ceti subalterni, dei sopravvissuti ai rivolgimenti indotti dal progresso in corso, si trasforma quindi, negli anni successivi, nell’espressione di una ricerca interiore, che possa dare voce alle inquietudini esistenziali di ogni singola anima, impegnata alla ricerca di un sollievo rispetto alle sofferenze ed alle insoddisfazioni date dalla propria condizione.
Sorgono così immagini pittoriche di inusitata possenza.
Dominate da tratti vigorosi di colore intenso e pastoso, le tele di Van Gogh ci consegnano l’immagine di una realtà deformata dal sentimento. Di una natura che non ha nulla di naturale ma che è stata rielaborata e restituita in una visione estatica, carica di suggestioni, testimonianza di un disagio sulle cui cause profonde permane una fitta oscurità.
Considerato unanimemente artefice di una grande pittura dei sentimenti, anche per Van Gogh si parlerà di anticipazione di esperienze che saranno fatte proprie, nel secolo seguente, dalla corrente artistica dell’espressionismo europeo.
Una visione scientifica per l’universalità dell’arte.
Accanto alle ricerche fondate sul recupero dei sentimenti esistenziali più profondi, viste qui nel caso di Gauguin e, più ancora, di Van Gogh, si trova anche, come esito maturo dell’esperienza impressionista, uno sviluppo radicale degli studi sulla luce applicati alla tecnica pittorica per il quale è stata usata la definizione di “neo-impressionismo”.
Sotto la spinta del progresso degli studi scientifici, già ampiamente messi al servizio, nel corso del secolo, delle principali trasformazioni avvenute in ambito produttivo, anche l’attività artistica trova il modo di raccogliere particolari contributi offerti da studi effettuati nel campo dei fenomeni fisici nel tentativo di rifondare, in senso moderno, la tecnica pittorica.
Il pointillisme (o puntinismo), si basa appunto su di una tecnica che prevede la composizione cromatica della tela data come risultante dell’accostamento, appositamente studiato, di aree colorate molto piccole e distinte tra loro.
Tale tecnica, fondata sul principio del “contrasto cromatico” elaborato in ambito scientifico (1), consente di ottenere, attraverso l’accostamento di colori complementari, un effetto di luminosità aumentata, nel momento in cui l’immagine complessiva del dipinto è il risultato di una mescolanza (prodotta dall’occhio al momento della percezione) dei diversi colori utilizzati.
George Seurat (1859-1891), è , insieme a Paul Signac (1863-1935) il massimo esponente del puntinismo.
Egli produce opere in cui lo studio e la precisazione della tecnica adottata è l’aspetto più significativo e curato della sua intera elaborazione.
Risulta difficile non notare come in essa il desiderio di affinare e rendere accettata tale tecnica faccia premio sulla composizione dell’opera e sui suoi contenuti, che non aggiungono molto a quanto già sperimentato in ambito impressionista.
Ed il senso di sospensione e distacco riscontrabile nelle sue opere principali, che sta alla base della loro caratteristica freddezza (pensiamo ad esempio a “Una domenica alla grand Jatte” del 1884-86), sembra essere il risultato più evidente e significativo del tentativo di giungere, attraverso l’applicazione di una formulazione scientifica, a riaprire l’orizzonte dell’arte pittorica, ormai relegata ai margini nel campo della rappresentazione della realtà, in direzione di una nuova, ed obbiettivamente inaspettata, universalità di linguaggio.
NOTE :
1) Tale principio, detto anche « Legge dei contrasti simultanei », fu formulato da Michel Eugène Chevreul (1786-1889), chimico francese, nell’ambito di studi da lui svolti sulla colorazione tessile nel 1839.
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