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Chi conosce queste pagine ha forse già letto un mio articolo di qualche anno fa in cui raccontavo le vicende occorse a mio nonno durante la guerra del 1915-18.
In quell’articolo, basato su di un memoriale che avevo avuto modo di leggere solo poco tempo prima, ricostruivo l’episodio in cui mio nonno, Corrado Rampa, allora combattente sulla linea del Piave, scrisse a carboncino sulla parete di una casa diroccata, la frase, divenuta poi celebre: “È meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”. (1)

In base a tale ricostruzione, grazie ai particolari indicati da mio nonno, risultava che la frase fosse stata scritta nei primi giorni di ottobre del 1918, con lo scopo di ricordare e “celebrare” la memoria dei compagni che erano caduti in quegli stessi luoghi nel giugno precedente, probabilmente nel corso di quella cosiddetta “battaglia del solstizio” che ebbe poi un ruolo importante nel decidere le sorti della guerra.

È stata quindi per me una sorpresa il venire a sapere, attraverso la successiva lettura di altri articoli su questo tema, di come una frase quasi identica a quella di cui parla mio nonno, fosse già presente e conosciuta in quei luoghi, presumibilmente dal luglio dello stesso anno, e venne riportata in un articolo di giornale pubblicato in quel periodo sulle pagine del Corriere della Sera.


L’articolo, datato 31 luglio 1918, a firma di Arnaldo Fraccaroli, all’epoca corrispondente di guerra, ne trascrive il testo in questi termini: “È meglio vivere un’ora da leone che cento anni da pecora”, e ci mostra come, al di là della differente determinazione temporale utilizzata (un’ora anziché un giorno), il senso generale di quella frase fosse quasi lo stesso rispetto a quello della ben più nota frase che mio nonno sostenne di aver scritto circa due mesi più tardi, in circostanze analoghe seppur parzialmente mutate.

È quindi proprio la data dell’articolo del Fraccaroli, il 31 luglio 1918, a costituire la testimonianza oggettiva del fatto che il testo di quella frase, a meno di qualche differenza, fosse già “in circolazione” lungo la linea del Piave nei mesi estivi che precedettero il momento in cui (non ho motivo di dubitarne) mio nonno ne trascrisse la propria versione su di un muro diroccato nei pressi della stazione ferroviaria di Fagaré.
E fu proprio da quel muro che quella frase venne asportata, assieme alla lastra di intonaco su cui era stata scritta, per poi essere trasferita all’interno del sacrario dedicato ai caduti, a San Biagio di Callalta, dove si trova tutt’ora.

Ma il fatto che esistesse già, come documentato, una versione precedente della frase poi trascritta da mio nonno, e che verosimilmente tale frase fosse già stata tracciata su qualche altro muro lungo la linea del Piave può, in effetti, spiegare perché vi fossero diversi soggetti a reclamarne in seguito la paternità ed anche avvalorare, allo stesso modo, altre testimonianze, oltre a quella di mio nonno che invece, da parte sua, ad esse accanitamente si opponeva.

Ed anzi, se proprio si volesse risalire alle origini di quella frase, occorrerebbe, come risulta da altre ricerche, valutare almeno altre due versioni ancora precedenti e parecchio simili all’originale, presenti l’una nella storiografia risorgimentale e l’altra in un testo di letteratura teatrale di poco successivo. (2)

Siamo dunque portati a pensare che mio nonno Corrado, dopo esser stato rapito dagli ideali adolescenziali e da questi condotto a vivere l’immane tragedia della guerra, trascrisse in realtà su quel muro qualcosa che aveva in qualche modo “sentito”, pur considerandolo, in quelle particolari circostanze, una sua personale ispirazione.
Qualcosa cioè che era in un certo senso sospeso nell’aria, prima ancora di essere fissato su ciò che, in effetti, erano le quinte della scena di un’impressionante devastazione.

Le immagini del coraggio, rappresentate dal leone, contrapposte a quelle della sottomissione e dell’accettazione passiva del proprio destino, suggerite dalla pecora, potevano certo servire a sostenere le anime di chi stava affrontando allora le sofferenze generate da un conflitto disumano, e per questo si offrivano, in quei drammatici giorni, alla libera interpretazione.

Mio nonno ci diede la sua, legata al tragico destino dei propri compagni, che vide cadere nei propri anni giovanili e di cui volle onorare, e sacralizzare, il sacrificio.

Noi ora possiamo forse cercare la nostra, cento anni dopo quei massacri e dopo tutte le conseguenze che quelli produssero.
E lo facciamo, questa volta, col riconoscere e col celebrare le forze del cuore (il leone) e le loro qualità superiori, che saranno in futuro destinate a riscattare le esistenze umane affrancandole finalmente dalla loro natura animale (rappresentata dal vivere in gregge) legata al passato, e che ci porteranno a creare una società nuova, non più fondata sul potere e sulla sopraffazione ma su di una vera fraternità.
Una società in cui vedremo il leone che, dopo aver vinto la propria aggressività trasformandola in mansuetudine, sarà al servizio dell’uomo, così come le forze del cuore, liberate dai vincoli della materia, riavvicinaneranno tutti gli uomini nello Spirito.
Una società in cui vivere anche soltanto un giorno “da leone” avrà più senso e verità che viverne cento, e molti di più, come una pecora.

NOTE:

1) LA VERITÀ DI MIO NONNO CONTRO LA RETORICA DEL REGIME – Una storia del novecento.

2) Ne: Il Risorgimento italiano. Biografie storico-politiche d’illustri italiani contemporanei, a cura di Leone Carpi, vol. II, Milano, Vallardi, 1886, a p. 241 in cui si legge “Meglio vale vivere un giorno come un leone, che cento anni come pecora”.
E poi: F.D. Guerrazzi. Discorso di Giovanni Marradi letto nel R. Teatro Goldoni in Livorno il 12 agosto 1904, Livorno, Giusti, 1904, p. 14, in cui si legge: “Il padre spartano, senza forse sapere in che fuoco soffiasse, gli sentenziava sempre esser meglio « vivere un giorno come un leone, che cento giorni come una pecora»”.