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La lettura del XXVI canto, uno dei più noti dell’Inferno dantesco, ha da sempre diviso gran parte della critica di fronte ad un dilemma interpretativo che ancora non è stato risolto.

Molti infatti si sono chiesti se Ulisse, l’eroe omerico protagonista della vicenda qui narrata, fosse stato effettivamente colpevole della trasgressione compiuta varcando con la sua nave la mitica soglia di Gibilterra per spingersi poi in Atlantico, opponendosi al volere divino e rendendosi meritevole della sua punizione.
Mentre altri, ritenendo che egli fosse spinto da un ammirevole quanto umano desiderio di conoscenza, lo hanno considerato ingiustamente penalizzato in quanto pagano, e come tale impedito a cercare di accedere autonomamente alle verità divine non essendo detentore della necessaria “grazia”.

Altri ancora, nel tentativo di risolvere la questione, hanno identificato Ulisse con lo stesso Dante, che avrebbe scelto di rappresentare sè stesso in una fase particolare del proprio percorso di vita, durante la quale il desiderio di conoscenza lo avrebbe mosso illudendolo di poter raggiungere il sapere divino per mezzo dei soli mezzi umani a sua disposizione. Dante avrebbe dunque commesso, secondo quest’ultima interpretazione, un peccato di superbia, che potè riconoscere e risolvere in seguito soltanto affidandosi alla fede cristiana, tramite la quale ebbe modo di raggiungere infine la vera conoscenza.

Naturalmente noi siamo liberi di scegliere di accettare siffatte interpretazioni, rimanendo così all’interno di una lettura “convenzionale” della Commedia di Dante, accettando cioè il quadro di riferimento dottrinale comunemente riconosciuto in cui attorno ai concetti di giudizio, colpa ed espiazione ruoterebbe l’intera visione dell’Inferno dantesco e non solo.

Notiamo però come, anche all’interno di queste letture “classiche”, diverse spiegazioni non riescano a convincere il lettore moderno, che ragionevolmente tende a considerare sproporzionata la pena assegnata ad Ulisse, il quale anche in qualità di “consigliere fraudolento” resta pur sempre un eroe che combatte per il vantaggio della patria e che, nell’episodio qui narrato, subisce quasi una punizione aggiuntiva con l’affondamento in oceano, pur essendo animato da un coraggioso moto di curiosità verso l’ignoto che, per certi aspetti, può risultare condivisibile.

Ci sembra inoltre che proprio questo sentimento di solidarietà verso un Ulisse trasformato in eroe “titanico”, che tali interpretazioni possono suscitare, sia particolarmente fuorviante perchè capace di indurre ad assegnare all’intera Commedia un carattere dogmatico e regressivo che in realtà non le compete, oltre a presentarci l’idea di un Dante ricercatore costretto a sottomettere la propria spinta conoscitiva alle regole dottrinali.

Proviamo allora a rileggere in modo diverso l’intero canto, iniziando dal considerare il fatto che, a dispetto delle apparenze, non ci troviamo semplicemente di fronte ad una rappresentazione artistica di una concezione dogmatica del mondo, bensì, molto più profondamente ed estesamente, di fronte al racconto di una grandiosa esperienza conoscitiva.

Dante e Virgilio, che rappresentano l’anima umana e la sua guida spirituale, compiono nella prima parte della Commedia un’esperienza iniziatica, e sono condotti ad attraversare una dimensione in cui le anime degli uomini, normalmente invisibili ai sensi fisici, appaiono ad essi nella loro effettiva condizione, nella loro intima essenza.

L’anima del “Dante” protagonista del poema è quindi, in un certo modo, in grado di osservare la sua stessa condizione per come essa appare nei vari livelli di coscienza in cui tutti gli esseri si trovano, ed iniziando dal livello inferiore (quello infernale) continua poi la sua indagine salendo e percorrendo immaginativamente tutti gli stadi successivi dell’evoluzione umana.

Accettate queste premesse non abbiamo più a che fare con una visione statica e definitiva della condizione degli esseri dopo la soglia della morte, né tantomeno con un rendiconto delle pene assegnate a personaggi realmente esistiti come conseguenza dei loro comportamenti terreni.

I personaggi che il Dante “autore” ci presenta nelle diverse situazioni sono, in effetti, la “modalità artistica” che lui usa per rendere espressive e quindi comunicabili le diverse condizioni animiche, le diverse qualità spirituali dell’umanità e degli altri esseri che costituiscono il vero oggetto di cui la Commedia si occupa.

La Commedia di Dante è, in estrema sintesi, una storia dell’anima umana e del suo mondo, non l’unica, ma probabilmente la più alta che sia stata scritta fino ad oggi, e da questo occorre partire se si vogliono “decifrare” correttamente i suoi contenuti.

Per discendere fino all’ottava bolgia Dante e Virgilio hanno dunque dovuto superare diversi ostacoli ed affrontare difficoltà di vario genere.

L’ingresso nella città infernale di Dite aveva addirittura richiesto l’intervento celeste (l’angelo che fa aprire le porte ai diavoli), per significare quanto sia in realtà difficile riuscire ad aver piena coscienza del nostro stato interiore.

E per mostrare come le difficoltà siano maggiori quanto più diminuisce la condizione etica in cui le nostre anime si trovano i due viaggiatori avevano fatta l’esperienza del passaggio da uno stato in cui le passioni inferiori dominano incontrollate (i cerchi dell’incontinenza) ad un altro in cui si sperimenta la malizia vera e propria, la condizione in cui cioè le facoltà razionali sono consapevolmente messe al servizio dell’egoismo e della sopraffazione.

Ma chi sono allora questi “peccatori” che Dante e Virgilio vedono apparire, come lucciole sparse sopra un campo, avvolti da una fiamma che addirittura li nasconde alla vista, indicando con ciò il fatto che la loro condizione di “sofferenza ardente” è tale da rendere questi spiriti irriconoscibili?

La risposta arriva dall’esempio offerto dai due personaggi che attraggono l’attenzione di Dante, avvolti in una fiamma maggiore e sdoppiata, che Virgilio identifica con Ulisse e Diomede.

Ulisse nei poemi omerici, quando questi vengono letti nella loro interpretazione più profonda, si riconosce come il personaggio che rappresenta la comparsa del pensiero nella storia dell’umanità. Egli è il primo uomo che, nel corso della storia, inizia ad usare consapevolmente il proprio pensiero. È colui che riesce autonomamente, usando il proprio ragionamento e senza seguire le indicazioni date dagli dei, a prendere delle decisioni operative.

Ulisse sa controllare le proprie passioni per agire con precisione, perseguendo con razionalità uno scopo definito.
Non a caso è proprio lui l’ideatore del cavallo di legno per mezzo del quale i greci, finalmente, riusciranno a conquistare Troia.

Diomede, d’altro canto, è colui che si occupa della messa in atto dei piani congegnati da Ulisse assicurandone le realizzazione. Egli è, in altre parole, il braccio operativo dello stesso Ulisse e ne completa, in un certo senso, l’immagine simbolica.

Ora, fare riferimento alla figura di Ulisse come fa Dante, trasportandone l’immagine nell’epoca in cui la Commedia è stata scritta per rappresentare una condizione dell’anima umana ha un significato preciso.
Significa voler indicare gli effetti che derivano dall’utilizzare il pensiero, le capacità di ragionamento caratteristiche dell’eroe omerico, in una condizione paragonabile a quella del mondo pre-cristiano, senza cioè che le capacità razionali che si sono acquisite vengano (ancora) poste al servizio del bene.

È chiaro infatti che, dal punto di vista evolutivo, lo sviluppo e l’utilizzo delle sole facoltà razionali al tempo della Grecia antica, al tempo in cui nasceva e si sviluppava il pensiero filosofico, costituiva una condizione di normalità rispetto alla crescita delle coscienze umane.

Ma è altrettanto chiaro che i comportamenti dettati da una coscienza che nel 1300 d.C. si presenti nelle stesse condizioni in cui, in epoca arcaica, i popoli greci organizzavano le loro scorribande incuranti dei soprusi e delle sofferenze che procuravano alle altre popolazioni non possano che essere posti, da una coscienza superiore, di fronte ai propri errori (o di fronte al proprio karma, volendo usare un termine più proprio proveniente dalla cultura tradizionale indiana), allo stesso modo in cui gli spiriti di Ulisse e Diomemede, avvolti dalle fiamme, « a la vendetta vanno come all’ira », come spiega opportunamente Virgilio con sintetica precisione.

Ma c’è anche un secondo aspetto che aiuta a spiegare il significato più autentico di questo canto, che riguarda nello specifico l’episodio narrato dallo stesso Ulisse.

Interrogato da Virgilio perché descrivesse il luogo in cui aveva concluso la propria esistenza terrena Ulisse racconta una storia inedita, che non si trova nel poema omerico da cui anzi, significativamente, si discosta.

Egli spiega di come, durante il viaggio di ritorno da Troia verso Itaca, viene ad un certo punto vinto da un “ardore” interiore che lo spinge irresistibilmente a “divenir del mondo esperto”.
Rinuncia quindi a ricongiungersi con la propria famiglia, così come era nelle sue intenzioni, e coinvolge in un nuovo viaggio il suo equipaggio, avventurandosi con esso fino al limite estremo del mar Mediterraneo.

Qui convince i compagni a seguirlo in Atlantico, prefigurando loro un’esperienza sensoriale mai provata prima, che li avrebbe condotti «di retro al sol, del mondo sanza gente».
E dopo cinque mesi di navigazione, arrivato in vista dell’alto monte del Purgatorio, viene investito da un turbine che, capovolgendola «com’altrui piacque», fa sprofondare nell’abisso l’intera nave con il suo equipaggio.

Con questo racconto, che si aggiunge alle diverse leggende esistenti al riguardo della fine di Ulisse, Dante completa e dà maggiore spessore al tema del pensiero come strumento dell’agire umano, portando l’attenzione sui rischi connessi all’uso “improprio” delle facoltà razionali cui l’umanità, di cui lui faceva parte, era ancora ampiamente esposta.

Dante conosce e presenta il percorso evolutivo “positivo”, quello prefigurato da Omero con il ricongiungimento di Ulisse con i famigliari, in cui l’esperienza del viaggio può essere letta come esperienza di crescita dell’Io umano, finalizzata ad una rinnovata unione con le parti della propria anima (rappresentate in questo caso da Penelope e dal figlio Telemaco), e qui la confronta con quella di un ego autoreferenziale, invaso da un particolare ardore che, dopo averlo distolto dal percorso virtuoso, lo induce ad usare l’ingegno per soddisfare i propri desideri personali.

Così Dante ci mette di fronte il caso in cui la ragione, privata della guida offerta dalla virtù, senza cioè che vi sia l’intervento dell’Amore, come dovrebbe avvenire a partire dall’epoca della venuta del Cristo in avanti, diventa un’arte manipolatoria.
Ed è appunto manipolatoria l’arte con cui Ulisse convince, con poco sforzo, i suoi compagni a seguirlo nella folle impresa, con quell’ «orazion picciola» che ancora suscita tanto interesse tra i lettori della Commedia pur senza che ne venga compreso il senso più profondo.

Certo agli occhi di Dante era del tutto chiaro che l’uscita dall’animalità (del «viver come bruti») fosse un passaggio connaturato all’evolversi dell’essere umano, ma era altrettanto chiaro come la razionalità non diretta al bene vero, quello rivolto agli altri prima che a sé stessi, fosse esposta all’azione di forze di deviazione che avrebbero condotto l’intero essere al naufragio.

I flutti spinti dal turbine, che sommergono la nave di Ulisse prima che questa possa avvicinarsi al monte del Purgatorio, altro non sono che gli effetti di queste forze, che diventano incontrollabili e distruttive, e che accendendosi come fiamme nell’interiorità di ciascuno dominano infine l’intero essere, incapace ormai di opporvi resistenza.

Dante fa capire qui chiaramente come l’abbandono del percorso più elevato indicato dalla coscienza, e l’ostinata ricerca di mondi alternativi che possano compiacere i desideri personali, sia in effetti di ostacolo alla vera crescita spirituale, e spiega come, anche ammettendo che nel corso di tali esperienze i mondi superiori possano essere intravisti (come avviene per il monte del Purgatorio) non per questo esiste la possibilità di raggiungerli per quella strada.

Il processo di crescita della coscienza umana è previsto e descritto nel piano divino, e non ammette salti né scorciatoie.
Per questo Dante, insieme a Virgilio, attraversa tutti i gironi e scende fino in fondo all’Inferno.
E dopo a quella delle fiamme ardenti incontrate nell’ottava bolgia farà anche l’esperienza della ghiaccia del Cocito, dove l’ostacolo più grande ha invece i caratteri dell’immobilità fredda e mortale.

Soltanto dal fondo avrà poi la possibilità di risalire, anche a costo di servirsi di Dite, il principe dell’Inferno, aggrappandosi ai ciuffi di pelo delle sue ali da pipistrello.

La ragione, ci spiega ancora Dante nel canto di Ulisse, è strumento importante e utile se messa al servizio di un cuore puro e maturato anche attraverso l’esperienza del dolore, e non avrebbe senso togliercela da noi stessi dopo averla ricevuta in dono direttamente dal Cielo:

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio

quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,

e più l’ingegno affreno ch’io non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;

sì che, se stella bona o miglior cosa

m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’ invidi.

Dante, Inferno, XXVI, 19-24.

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